Platone: l'ideazione dell'anima e la nascita del dualismo antropologico -
La pluralità corporea di Omero, ben lungi dall'essere composta dalla
dissociazione sciamanica, troverà la sua unità con Platone e Aristotele,
esponenti il primo di un'unità dell'anima e il secondo di un'unità del
corpo. Platone e Aristotele, infatti, su questo tema sono esattamente agli antipodi.
I
frequenti riferimenti a Platone ci dispensano dall'esposizione
sistematica della sua dottrina dell'anima, ma non dall'illustrare
l'intenzione che l'ha promossa, che è poi quella di costruire un
linguaggio, e quindi un sapere, unico, universale e valido per tutti.
Infatti prima che il linguaggio parlasse per identità e differenza,
percorrendo quella logica disgiuntiva, secondo cui una cosa è se stessa
perché non è altro, esisteva un linguaggio simbolico, dove una cosa era
se stessa ma anche altro. In questo linguaggio, l'identità, e quindi
l'identificazione delle cose, era debole, l'oscillazione dei significati
era frequente, l'ambivalenza linguistica, se non addirittura la
polivalenza, determinava quelle che Lévi-Strauss chiama "fluttuazioni di
significato".
"Quando, come ci ricorda Jung:
I Wachandi, nelle
loro feste di primavera, scavano una fossa di forma oblunga, la
circondano di cespugli a imitazione del genitale femminile, e poi vi
danzano intorno con le loro lance che ricordano il pene in erezione
gridando:
"Pulli nira, pulli nira, watakà (Non è una fossa, non è una
fossa, ma una vulva)".
I Wachandi parlano un linguaggio simbolico
perché, incuranti del principio di non contraddizione, compongono
(sym-bállein) dei significati che di per sé non sono immediatamente e
necessariamente componibili. Negano l'identità di una cosa con se stessa
(la fossa non è una fossa), per procedere alla sua identificazione con
altro (la fossa è una vulva).
Naturalmente il linguaggio simbolico
consente la comunicazione solo all'interno del gruppo, della tribù o
del popolo che condivide quel particolare mito che fissa una determinata
connessione di significati. Fuori del gruppo non c'è comunicazione,
perché la variazione mitologica sposta l'asse referenziale delle parole,
producendo altre ritualità, dove sono ospitate altre forme di
comunicazione. Per questo dal linguaggio simbolico non scaturisce un
sapere universale, ma solo quei saperi regionali, veicolati dalla
regolarità rituale decisa dall'arbitrarietà mitologica.
Platone
fissa il primo blocco delle basi discorsive, e quindi il superamento
delle oscillazioni semantiche che sono proprie del linguaggio simbolico.
A regolare il linguaggio è il principio di non contraddizione, per cui
una cosa è se stessa e non altro. Il significato è ciò che scaturisce da
questa esclusione che, annullando ogni virtualità di senso che ecceda
la mera identità di una cosa con se stessa, struttura per esclusione
quell'equivalenza, dove è soppressa ogni ambivalenza simbolica, e dove
il significante e il significato sono affidati a un sistema di reciproco
controllo.
La domanda platonica che chiede il ti ésti, il che
cos'è una cosa, la sua essenza, è una domanda che può ottenere risposta,
perché, delimitati i campi e configurati i significati, con quella
procedura di esclusione messa in atto dal principio di non
contraddizione, non è più possibile confondere una fossa con una vulva.
Le cose finalmente significano se stesse e non altro, le parole che le
nominano ribadiscono la loro identità, le oscillazioni o le eccedenze di
significato che ogni simbolo porta con sé sono ridotte
all'insignificanza. Non più il singolo gruppo, la singola tribù, il
singolo popolo che parla, ma il linguaggio parla, de-terminando il
significato delle cose che risultano così concluse nella loro
terminazione concettuale.
L'iperuranio platonico è il primo grande
laboratorio di costruzione del sapere e del linguaggio che così si
emancipa dall'ambivalenza simbolica. La distribuzione delle idee in
generi e specie crea quel reticolato di inclusione e di esclusione che
consente l'identificazione dei significati attraverso le procedure di
identità e differenza.
Questa grande convenzione platonica che,
come avverte Nietzsche,41 ha inaugurato per l'Occidente una grammatica e
una lingua logica, non è riconosciuta da Platone come una semplice
posizione di regole linguistiche, ma è identificata con l'oggettività
dell'essere stesso (ontologia), che trova la sua più alta espressione
nell'idea di Sommo Bene da cui tutte le altre idee dipendono.
Ma a
parte la persuasione platonica che conferisce valore ontologico alle
regole linguistiche, quel che conta per Platone è che, per creare un
linguaggio universale, bisogna prescindere dalla certezza sensibile
ossia dalle informazioni del corpo. E questo perché le sensazioni
corporee sono diverse da individuo a individuo; inoltre il corpo muta:
da giovane diventa adulto e poi vecchio, si ammala, è corrotto dalle
passioni, per cui è impossibile creare un linguaggio universale e valido
per tutti basandosi esclusivamente sulle sensazioni corporee.
Di
qui la necessità di introdurre il concetto di anima (psyché) che,
prescindendo dalla certezza sensibile, sappia procedere, nella
costruzione del sapere, attraverso quei costrutti mentali che per
Platone sono i numeri e le idee. A essi, infatti, mediante l'astrazione
dall'esperienza sensibile, tutti possono pervenire, guadagnando così un
sapere oggettivo che si lascia esprimere con un linguaggio universale e
da tutti condiviso.
L'anima di Platone nasce quindi da un'esigenza
epistemologica, e precisamente dal bisogno di pervenire a una verità, a
cui tutti possono accedere e in cui tutti possono convenire. Nulla da
spartire quindi con l'anima cristiana che nasce non per un'esigenza di
verità (essendo questa, per il cristiano, già disponibile attraverso la
fede), ma per un'esigenza di salvezza, per cui quanti scorgono
nell'anima platonica un antecedente dell'anima cristiana danno a vedere
di non aver capito nulla del cristianesimo e tanto meno di Platone, che a
questo proposito scrive:
Sembra ci sia un sentiero che ci porta,
mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione, e cioè:
fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta
invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo
adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. [...]
Pertanto, nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci
avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni con il
corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia
imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura
del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri fino a che Iddio stesso non
ci avrà sciolto da esso. E così, liberati dalla follia del corpo [tés
tou sómatos aphrosynes], come è verosimile, ci troveremo con esseri puri
come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che
è puro: questo io penso è la verità.
In tal modo Platone sancisce
nell'uomo il più radicale dei dualismi, quello di anima e corpo, dove
l'anima, o se preferiamo l'io razionale (psyché), potrà recuperare la
sua vera natura quando la morte o l'esercizio di morte (meléte thanátou)
l'avranno purgata dalla "follia del corpo".
Come massima antitesi
alla ragione, il corpo viene a raccogliere in sé tutta la tradizione
irrazionalistica del mondo greco che, introdottasi con l'"anima dello
sciamano", era stata assimilata dall'"immagine di vita" di Pindaro, e
poi ripresa dal "demone" di Empedocle fino alla "follia del corpo" di
Platone. A questo proposito è interessante constatare come il corpo,
questo contraltare della ragione, costituisca una tentazione costante e
mai superata dal pensiero greco, se è vero, come abbiamo visto, che non
solo Platone vi si abbandona quando, nel Simposio, parla dell'"éros come
daímon", ma, prima di lui, Eraclito, il grande cantore del Lógos, non
riesce a sottrarvisi là dove indica il demone come norma di condotta
dell'uomo: "Éthos anthrópoi daìmon" .44
Una battaglia inutile
allora quella contro il corpo? Probabilmente sì, perché il corpo
appartiene alla natura dell'uomo così come il mondo che lo circonda. E
una condotta di vita che propone di "sciogliersi dai lacci del corpo" e
di "fuggire dal mondo" è solo una condotta di morte per quanto elevati
possano essere le idee o gli ideali a cui tende. Del resto già Nietzsche
aveva messo in guardia da quell'ordine di pensieri e di valori che si
affermano sul misconoscimento del corpo, perché proprio in questo
misconoscimento è il loro limite e la loro incommensurabile distanza
dall'uomo:
Ogni filosofia che la pace ripone più in alto della
guerra, ogni etica che ha della nozione di felicità una concezione
negativa, ogni metafisica e ogni fisica che conosce un finale, uno stato
terminale di qualsivoglia specie, ogni esigenza prevalentemente
estetica o religiosa di un per sé, di un al di là, di un al di fuori, di
un al di sopra, autorizza a chiedere se non sia stata la malattia ciò
che ha ispirato il filosofo. L'inconsapevole travestimento di
fisiologiche necessità sotto il mantello dell'oggettivo, dell'ideale,
del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli - e
abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo
complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto
un'interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo.
Al riguardo Dodds ritiene che:
Questa
non è l'ultima parola di Platone perché già nel Fedro e nella
Repubblica noi assistiamo a una mitigazione del conflitto tra l'anima e
le passioni del corpo, non più considerate come un'infezione originaria,
ma come qualcosa di canalizzabile nel senso della libido di Freud, e
quindi di sublimabile.
Da parte nostra osserviamo che, se anche
questo fosse vero, il corpo non resta certo riscattato dalla negatività
con cui è caratterizzato nel Fedone. Dire, infatti, che qualcosa può es.
sere sublimato significa confermare che in sé è qualcosa di perverso,
come appunto si dice nel Fedro quando, sotto il giogo dell'auriga e in
compagnia di un cavallo bianco molto più disciplinato di lui, il cavallo
nero, che rappresenta gli appetiti del corpo, scalpita, e come dice
Platone:
È tutto tozzo, malformato; ha il collo grosso, le narici
schiacciate; è di colore nero, l'occhio è azzurrastro e intriso di
sangue. È violento e sfrontato. È irsuto, sordo, cede solo alla frusta e
al pungolo.
Queste sono le immagini con cui l'energia del corpo
viene "sublimata dall'evoluzione del pensiero platonico". Sono immagini
paradigmatiche che la civiltà e la cultura dell'Occidente, ispirate dal
platonismo, hanno sempre applicato a tutto ciò che poteva tornare utile
solo nella forma della repressione. È lo stesso Platone a dirlo a chiare
lettere:
Questa vicenda può ripetersi molte volte fino al momento in cui il cavallo malvagio, domato, non darà più segni di violenza.
Il
distacco dal corpo, a cui si invita nel Fedone, viene così riconfermato
nel Fedro dove, all'auspicata separazione dell'anima dal corpo, si
sostituisce la "sublimazione" della frusta e del pungolo, con cui si
contiene la forza del corpo, del desiderio, della passione, dell'odio,
dell'amore, finché il cavallo nero, "umile ormai, segue i criteri
dell'auriga, perché paura l'atterra"."
L'atteggiamento di Platone
nei confronti del corpo, questa "bestia indomita" come è detto nel
Timeo, porta inevitabilmente il filosofo delle idee a non considerare
gran cosa (méga ti) la vita umana, e a ritenere addirittura subumana la
sorte degli uomini a venire, se è vero che, nella successiva
incarnazione, a eccezione dei filosofi, alcuni saranno asini, altri
lupi, mentre i métrioi, i rispettabili borghesi, diventeranno api e
formiche," cosa questa che, come ben videro gli stessi platonici, e più
chiaramente di tutti Plotino, "difficilmente concilia con l'opinione che
ogni anima umana sia, nella sua essenza, razionale".
E in effetti
le conclusioni non potevano essere diverse stanti le premesse del
Fedone, in cui gli esseri umani sono concepiti proprietà privata di Dio.
Queste premesse, nonostante le evoluzioni che su questo tema si
vogliono scorgere nel pensiero platonico, ritornano immutate nelle Leggi
dove detto che "gli uomini, al pari di un gregge di pecore, sono
incapaci di reggersi da soli"," che "Dio, e non l'uomo, è miura di tutte
le cose"» che "l'uomo è proprietà [ktéma] degli déi", e che "se
desidera la felicità deve essere di fronte a Dio umile [tapeinós]" ,
che, come ci dice Dodds, "è parola che in cuasi tutti gli autori greci e
in altri passi dello stesso Platone usata in senso spregiativo".
Alla
luce di questi passi, il pessimismo delle Leggi non è frutto di
aberrazione senile, ma l'esito inevitabile di un'antropologia che ha
preso le mosse dal misconoscimento del corpo a cui, in nome dell'anima,
Platone sottrasse persino il suo mondo, quel mondo sensibile che
soggiogò allo sguardo iperuranico, dove sono le idee, norme e modello
delle cose, e ove un tempo abitava anche l'anima per natura simile alle
lee. Partendo da queste premesse non fu difficile in seguito sottoporre
tutto allo sguardo di Dio che, come ci ricorda Sartre, "è il concetto
dell'altro spinto all'estremo limite". Dio, essenza dell'alienazione,
perché sotto il suo sguardo non si più presso di sé, ma es-propriati.
Guardato
dall'anima, dalle idee e da Dio, il corpo non è più punto di vista sul
mondo, ma oggetto osservato nel mondo; oggetto di valutazioni che, come
valori, giungono a qualificarlo, senza che esso possa agire su queste
qualificazioni. Un corpo visto, un corpo giudicato, un corpo privato
delle sue possibilità, un corpo in pericolo, perché posseduto dalla
libertà di chi vede senza esser visto. Di fronte all'anima che ha
sconosciuto le idee e che ne porta dentro di sé la memoria, di fronte ai
valori espressi dalle idee, di i fronte a Dio causa delle idee, di
fronte alle idee, a questi sguardi non visti ma sempre puntati sul mondo
corporeo, al corpo non resta altro che la propria abiezione (tapeinós),
che è poli l'oggettività a cui è stato ridotto una volta spogliato
della sua soggettività.
L'ordine degli oggetti, l'ordine de delle
cose è stabilito nella Repubblica, governata ovviamente dai filosofi che
meglio di tutti conoscono le idee. Sotto di loro i difensori della
città, gli artigiani, gli schiavi, le donne. Più si scende nella
gerarchia, più si perde in soggettività fimo a divenire oggettività
pura, per cui non c'è da meravigliarsi se nello Stato ideale di Platone i
filosofi hanno in comune ile cose e le donne, e se nelle Leggi si dice
che:
La cosa principale è che nessuno, uomo o donna, sia mai privo
di un guardiano a lui preposto, e ale nessuno acquisti l'abito mentale
di prendere alcuna iniziativa sul serio o per scherzo, in base alla
propria responsabilità personale. In pace come in guerra, ognuno deve
vivere sempre con gli occhi rivolti al guardiano suo superiore, seguendo
la sua direzione, in modo da poter essere da lui guidato fin nelle
minime azioni. [...] In una parola, dobbiamo addestrare la mente a noni
pensare e a non agire come individuo, né a permettersi di agire così.
In
questo modo, dal disprezzo del corpo, siamo giunti al disprezzo
dell'uomo, perché ogni distanza è stata abolita lungo il sentiero che,
dall'apologia dell'anima razionale, ha condotto all'instaurazione della
ragione come strumento di razionalizzazione. Se poi sia questo il vero
insegnamento antropologico di Platone, nessuno meglio della storia
d'Occidente lo può dire. E proprio qui l'Occidente insegna.
Aristotele: il riconoscimento del corpo e la restaurazione dell'unità antropologica -
Nell'affrontare
il problema dell'anima Aristotele inizia con un'osservazione
metodologica che noi oggi non esiteremmo a definire scientifica:
Coloro
che parlano dell'anima e indagano su di essa sembrano prendere in
considerazione soltanto l'anima umana. Io invece desidero impostare il
problema diversamente e in termini concreti, perché l'anima di un
cavallo, di un cane o di un dio non è identica all'anima di un uomo, per
cui "anima" assunta nel suo significato universale o è niente o è
qualcosa di posteriore. Inoltre esistono diverse funzioni attribuite
all'anima, e, dal momento che non possiamo vedere l'anima, dobbiamo
procedere da ciò in cui l'anima si manifesta, perché solo basandoci
sulle manifestazioni dell'anima e sui fenomeni collaterali possiamo
sperare di conoscere ciò che l'anima è.
Anche per l'anima, dunque,
Aristotele applica il principio "ópsis adélon tà phainómena" che
consiste nel risalire dall'effetto visibile alla causa invisibile.
Questo metodo si rivelerà particolarmente fecondo perché, scrive
Aristotele:
Se dall'esame dei fenomeni visibili apparirà
un'operazione o passione propria dell'anima, allora l'anima potrà
esistere separatamente dal corpo, se invece non ce ne sarà alcuna
propriamente sua, allora non si potrà parlare di un'esistenza separata.
I
primi risultati di questo metodo dicono che al corpo sono da
ricondurre: le affezioni dell'anima quali "il coraggio, la dolcezza, il
timore, la misericordia, l'audacia, e ancora, la gioia, l'amore, l'odio,
perché, quando si producono, il corpo subisce una modificazione"; la
percezione perché, dall'esame degli organi di senso, risulta che senza
questi strumenti corporei la facoltà percettiva sarebbe impossibile
"perciò ne concludo che anche la facoltà di percepire risiede
all'interno del corpo"; e infine la stessa memoria su cui Platone aveva
costruito la sua teoria della reminiscenza per dimostrare la
preesistenza dell'anima al corpo e la sua immortalità dopo la
separazione.
L'argomento è svolto nel trattato Sulla memoria e la
reminiscenza dove Aristotele dice che "anche gli animali posseggono la
memoria che è un processo accompagnato da sintomi fisiologici e perciò
non avviene senza il corpo"." A questo punto lo Stagirita non può fare a
meno di constatare che:
I miei predecessori congiungono o anche
collocano l'anima nel corpo, senza spiegare né la ragione di questa
unione, né la condizione del corpo. Eppure questo sarebbe necessario,
perché, grazie a tale unione, uno agisce e l'altro patisce, uno è mosso e
l'altro muove. Nessuna di siffatte relazioni esiste tra elementi presi a
caso. Questi miei predecessori, invece, si preoccupano solo di spiegare
qual è la natura dell'anima e di quali elementi essa consiste, ma
niente dicono del corpo destinato ad accoglierla. Il loro discorso è
come quello di chi dicesse che l'arte dell'intagliatore entra nel
flauto, mentre è necessario che l'arte si serva dei rispondenti
strumenti, come l'anima del corpo corrispondente.
Non diciamo
allora che l'anima s'attrista o gioisce, è audace o timorosa, e ancora
che s'adira, percepisce sensazioni, pensa, perché, una volta ammesso che
l'attristarsi, o il gioire o il pensare sono movimenti, alcuni di
traslazione di certe parti del corpo, altri di alterazione, dire che
l'anima si adira è come dire che l'anima tesse o edifica. Dobbiamo
allora concludere che non l'anima prova compassione, apprende, pensa, ma
l'uomo mediante l'anima [tòn ánthropon té psyché].
Tommaso
d'Aquino, nel suo Commentario al De anima di Aristotele, rende molto
bene in latino questo passo: "Praestat enim profecto non dicere animam
misereri, vel discere, vel ratiocinari, sed hominem ope animae". Dunque
non più la separazione platonica tra anima e corpo, ma la loro intima
connessione, dove il corpo, se è strumento dell'anima, lo è allo stesso
modo di come l'anima è strumento dell'uomo. L'uomo, quindi, e non
l'anima è il soggetto restaurato da Aristotele.
Dobbiamo tener
ferma questa proposizione come quella che meglio riflette la posizione
che Aristotele ha sempre sostenuto, nonostante da più parti si sia
voluta scorgere un'evoluzione nel pensiero psicologico dello Stagirita
che, a parere di molti, avrebbe percorso almeno tre stadi. A questo
proposito ci sia consentita una breve parentesi filologica che provi
l'inesistenza di questa evoluzione, e quindi l'impossibilità di
privilegiare uno degli stadi facendo dire ad Aristotele quello che torna
più utile alla tesi che ciascuno vuol sostenere.
Secondo la
teoria di Nuyens," divenuta dominante grazie al consenso dei più
autorevoli studiosi di Aristotele quali Mansion, Ross e Gauthier,
l'evoluzione del pensiero psicologico dello Stagirita prevede: 1) lo
stadio dell'Eudemo in cui Aristotele sostiene le tesi platoniche, 2) lo
stadio degli Analitici e delle Etiche in cui intende il corpo come
strumento dell'anima e 3) lo stadio de L'anima e dei libri più recenti
della Metafisica in cui considera l'anima come entelécheia, ossia come
forma e attuazione del corpo.
Ora, tranne che nell'Eudemo, come
osserva opportunamente Düring,76 Aristotele si limita a esporre le
teorie esistenti sull'immortalità dell'anima senza indicare, come ci
dice Alessandro, il proprio punto di vista (ídios skopós), la
classificazione di Nuyens non tiene assolutamente conto del metodo di
Aristotele, che di volta in volta cambia le definizioni dell'anima, non
perché il suo pensiero subisca un'evoluzione, ma perché affronta
l'argomento da punti di vista diversi.
Infatti, quando Aristotele
parla dell'anima da un punto di vista fisico la chiama "forza del corpo
[dynamis sómatos], origine del movimento"77; quando ne parla dal punto
di vista biologico la identifica con la vita: "l'anima [psyché] è
identica a vita [bíos], e come tale non è separabile dal corpo"; infine,
quando considera l'anima da un punto di vista fisiologico, se procede
dalla teoria della forma e della materia la definisce forma del corpo
(morphé sómatos), se parte dalla teoria dell'atto e della potenza la
concepisce come attività del corpo (enérgheia sómatos), se prende le
mosse dalla teoria del movimento la intende come sua causa e suo
principio (sómatos aitía kaì arché), se infine parte dalla teoria del
télos la considera come attualizzazione compiuta del corpo (entelécheia
sómatos physikou). Tutte queste definizioni non segnano un'evoluzione
del pensiero di Aristotele, ma, come giustamente osserva Düring,
rappresentano altrettanti "tentativi di precisare l'enigmatico fenomeno
dell'anima considerandola da sempre nuovi angoli di visuale".
Da
tutte queste definizioni emerge un dato incontrovertibile: per
Aristotele l'anima non è separabile dal corpo. Per lui non ha più alcun
senso quella socratica "cura dell'anima" che, come ci dice Platone,
consiste "nel separare il più possibile l'anima dal corpo e
nell'abituarla a raccogliersi e a restare sola con se stessa sciolta dai
vincoli del corpo come da catene"."
Ne L'anima e nei Topici,
infatti, Aristotele respinge ripetutamente le definizioni platoniche
dell'anima quale realtà immortale (athánatos), ingenerata (aghénetos),
incorruttibile (áphthartos), incorporea (asómatos), sempre attiva
(aeikínetos) e semovente (autokínetos), perché tutte le funzioni
dell'anima, con la sola esclusione dell'intelletto (nous), hanno per
Aristotele legami di natura fisiologica con il corpo. Resta il problema
dell'intelletto, a proposito del quale lo Stagirita afferma:
Alcuni
dicono a ragione che l'anima è la sede delle forme del pensiero; in
realtà, essa non lo è nella sua totalità, ma solo come anima
intellettiva, e solo nel senso che essa possiede la capacità di ricevere
le forme.
Come è noto Aristotele individua un intelletto
recettivo detto nous pathetikós, non perché sia passivo, ma perché è
affetto dalle impressioni che riceve dal mondo esterno. È un intelletto
che talvolta pensa e talvolta no, ha un destino del tutto simile a
quello del corpo, perché:
Nel corpo le immagini della
rappresentazione stanno come le impronte di un sigillo, per cui ciò che è
pensato, amato, odiato da questo intelletto muore insieme al suo
depositario.
Poi Aristotele parla di un intelletto attivo o
costruttivo (nous poietikós) che "fa tutto [pánta poiei]", a proposito
del quale dice:
Questo intelletto è separato [chorísmos],
impassibile [apathés] e senza mescolanza [amighés] perché nell'essenza è
atto. [...] Separato, esso è solo ciò che appunto è, e questo solo è
immortale ed eterno. Noi non lo ricordiamo perché questo intelletto è
impassibile, mentre l'intelletto passivo è corruttibile e, senza di
questo, quello non può pensare.
È questo il passo più celebre di
tutta L'anima e, per il nostro assunto, quello decisivo, perché in esso
si solleva e si lascia insoluto il problema del rapporto dell'intelletto
attivo con l'anima e il corpo di ciascun individuo. Su questo punto la
storia dell'aristotelismo, a partire dall'interpretazione di Alessandro
di Afrodisia86 fino agli sviluppi arabi, tomisti e umanistici, sarà
particolarmente appassionata in una polemica destinata a durare per
molti secoli e ancora oggi non conclusa.
A me pare che il testo
aristotelico qui esprima due concetti: 1) separato dall'intelletto
recettivo, dunque dopo la morte dell'individuo, l'intelletto attivo è
soltanto ciò che esso è, cioè soltanto veramente se stesso; 2) nessun
ricordo può sopravvivere perché l'intelletto attivo non mantiene alcuna
traccia di ricordo, e l'intelletto recettivo, che conserva queste
tracce, è corruttibile.
Da queste affermazioni si deduce: 1) che
l'intelletto attivo "separato", dopo la morte dell'individuo, non ha più
assolutamente nulla in comune con la sfera umana; 2) non esiste alcuna
forma di reminiscenza platonica, perché l'intelletto attivo "separato",
che è l'unico elemento immortale, non porta con sé alcun ricordo della
vita terrena.
Se queste deduzioni sono plausibili allora è
possibile concludere che l'intelletto attivo "separato", come ce lo
presenta Aristotele, è identico all'intelletto divino nóesis noéseos, e
come tale, lo ripetiamo, non ha nulla a che fare con la sfera
dell'umano, mentre l'anima coincide con l'intelletto recettivo,
strettamente legato alla funzionalità del corpo e alle sorti del corpo
fino a identificarsi con questa funzionalità e queste sorti. In tale
interpretazione siamo confortati da un altro passo dove Aristotele, dopo
aver detto che "l'anima è l'attuazione [entelécheia] del corpo",
aggiunge:
Bene pertanto suppongono quanti ritengono che né l'anima
esiste senza il corpo, né essa è un corpo. Corpo certo non è, ma
qualcosa del corpo [sómatos dé ti] e per questo è nel corpo e in un
corpo di determinata natura, e non come volevano quanti ci hanno
preceduto, che l'adattavano nel corpo, senza di questo determinare la
natura e la qualità, sebbene non si noti mai che una cosa qualunque
accolga una cosa qualunque.
Impostando per primo il problema in
termini "biologici", cioè di vita (bíos), Aristotele può definire
l'anima come "qualcosa del corpo [sómatos dé ti]" , stabilendo una volta
per tutte che la vera differenza di natura non è come aveva detto
Platone tra l'anima e il corpo, ma, come aveva detto Omero, tra il corpo
vivente impegnato in un mondo e il cadavere ridotto a cosa nel mondo.
Di qui la conclusione di Aristotele:
Affermiamo dunque, dopo aver dato inizio alla ricerca, che chi ha l'anima si distingue da chi non ce l'ha per l'atto del vivere.
Eppure,
nonostante Aristotele, l'Occidente non avrà alcuna esitazione a
proseguire lungo la via tracciata da Platone, la cui antropologia
dualistica e profondamente ostile ai valori del corpo non tarderà a
catturare quell'altra sorgente del pensiero occidentale costituita dalla
tradizione giudaico-cristiana che, in tutta la sua storia, era sempre
rimasta fedele a quella visione unitaria dell'uomo, dove decisivo non
era il rapporto praticamente sconosciuto tra anima e corpo, ma quello
quotidianamente vissuto dell'uomo con Dio.
L'assorbimento
dell'antropologia giudaico-cristiana nel modello concettuale greco
consoliderà quella divisione tra anima e corpo su cui Cartesio non avrà
"alcun dubbio" quando, introducendo la nota distinzione tra res cogitans
e res extensa, sottrarrà l'anima a ogni influenza corporea per
risolverla nel puro intelletto, nell'ego intersoggettivo che, con le sue
cogitazioni rigorosamente eseguite, esprimerà ogni possibile senso del
mondo e il significato di ogni io personale e soggettivo che abita il
mondo.
Nessun commento:
Posta un commento