domenica 5 ottobre 2014

Platone: l'ideazione dell'anima e la nascita del dualismo antropologico -

Platone: l'ideazione dell'anima e la nascita del dualismo antropologico - 

 

La pluralità corporea di Omero, ben lungi dall'essere composta dalla dissociazione sciamanica, troverà la sua unità con Platone e Aristotele, esponenti il primo di un'unità dell'anima e il secondo di un'unità del corpo. Platone e Aristotele, infatti, su questo tema sono esattamente agli antipodi.
I frequenti riferimenti a Platone ci dispensano dall'esposizione sistematica della sua dottrina dell'anima, ma non dall'illustrare l'intenzione che l'ha promossa, che è poi quella di costruire un linguaggio, e quindi un sapere, unico, universale e valido per tutti. Infatti prima che il linguaggio parlasse per identità e differenza, percorrendo quella logica disgiuntiva, secondo cui una cosa è se stessa perché non è altro, esisteva un linguaggio simbolico, dove una cosa era se stessa ma anche altro. In questo linguaggio, l'identità, e quindi l'identificazione delle cose, era debole, l'oscillazione dei significati era frequente, l'ambivalenza linguistica, se non addirittura la polivalenza, determinava quelle che Lévi-Strauss chiama "fluttuazioni di significato".

"Quando, come ci ricorda Jung:

I Wachandi, nelle loro feste di primavera, scavano una fossa di forma oblunga, la circondano di cespugli a imitazione del genitale femminile, e poi vi danzano intorno con le loro lance che ricordano il pene in erezione gridando: 

"Pulli nira, pulli nira, watakà (Non è una fossa, non è una fossa, ma una vulva)".
I Wachandi parlano un linguaggio simbolico perché, incuranti del principio di non contraddizione, compongono (sym-bállein) dei significati che di per sé non sono immediatamente e necessariamente componibili. Negano l'identità di una cosa con se stessa (la fossa non è una fossa), per procedere alla sua identificazione con altro (la fossa è una vulva).
Naturalmente il linguaggio simbolico consente la comunicazione solo all'interno del gruppo, della tribù o del popolo che condivide quel particolare mito che fissa una determinata connessione di significati. Fuori del gruppo non c'è comunicazione, perché la variazione mitologica sposta l'asse referenziale delle parole, producendo altre ritualità, dove sono ospitate altre forme di comunicazione. Per questo dal linguaggio simbolico non scaturisce un sapere universale, ma solo quei saperi regionali, veicolati dalla regolarità rituale decisa dall'arbitrarietà mitologica.
Platone fissa il primo blocco delle basi discorsive, e quindi il superamento delle oscillazioni semantiche che sono proprie del linguaggio simbolico. A regolare il linguaggio è il principio di non contraddizione, per cui una cosa è se stessa e non altro. Il significato è ciò che scaturisce da questa esclusione che, annullando ogni virtualità di senso che ecceda la mera identità di una cosa con se stessa, struttura per esclusione quell'equivalenza, dove è soppressa ogni ambivalenza simbolica, e dove il significante e il significato sono affidati a un sistema di reciproco controllo.
La domanda platonica che chiede il ti ésti, il che cos'è una cosa, la sua essenza, è una domanda che può ottenere risposta, perché, delimitati i campi e configurati i significati, con quella procedura di esclusione messa in atto dal principio di non contraddizione, non è più possibile confondere una fossa con una vulva. Le cose finalmente significano se stesse e non altro, le parole che le nominano ribadiscono la loro identità, le oscillazioni o le eccedenze di significato che ogni simbolo porta con sé sono ridotte all'insignificanza. Non più il singolo gruppo, la singola tribù, il singolo popolo che parla, ma il linguaggio parla, de-terminando il significato delle cose che risultano così concluse nella loro terminazione concettuale.
L'iperuranio platonico è il primo grande laboratorio di costruzione del sapere e del linguaggio che così si emancipa dall'ambivalenza simbolica. La distribuzione delle idee in generi e specie crea quel reticolato di inclusione e di esclusione che consente l'identificazione dei significati attraverso le procedure di identità e differenza.
Questa grande convenzione platonica che, come avverte Nietzsche,41 ha inaugurato per l'Occidente una grammatica e una lingua logica, non è riconosciuta da Platone come una semplice posizione di regole linguistiche, ma è identificata con l'oggettività dell'essere stesso (ontologia), che trova la sua più alta espressione nell'idea di Sommo Bene da cui tutte le altre idee dipendono.
Ma a parte la persuasione platonica che conferisce valore ontologico alle regole linguistiche, quel che conta per Platone è che, per creare un linguaggio universale, bisogna prescindere dalla certezza sensibile ossia dalle informazioni del corpo. E questo perché le sensazioni corporee sono diverse da individuo a individuo; inoltre il corpo muta: da giovane diventa adulto e poi vecchio, si ammala, è corrotto dalle passioni, per cui è impossibile creare un linguaggio universale e valido per tutti basandosi esclusivamente sulle sensazioni corporee.
Di qui la necessità di introdurre il concetto di anima (psyché) che, prescindendo dalla certezza sensibile, sappia procedere, nella costruzione del sapere, attraverso quei costrutti mentali che per Platone sono i numeri e le idee. A essi, infatti, mediante l'astrazione dall'esperienza sensibile, tutti possono pervenire, guadagnando così un sapere oggettivo che si lascia esprimere con un linguaggio universale e da tutti condiviso.
L'anima di Platone nasce quindi da un'esigenza epistemologica, e precisamente dal bisogno di pervenire a una verità, a cui tutti possono accedere e in cui tutti possono convenire. Nulla da spartire quindi con l'anima cristiana che nasce non per un'esigenza di verità (essendo questa, per il cristiano, già disponibile attraverso la fede), ma per un'esigenza di salvezza, per cui quanti scorgono nell'anima platonica un antecedente dell'anima cristiana danno a vedere di non aver capito nulla del cristianesimo e tanto meno di Platone, che a questo proposito scrive:
Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione, e cioè: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. [...] Pertanto, nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni con il corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri fino a che Iddio stesso non ci avrà sciolto da esso. E così, liberati dalla follia del corpo [tés tou sómatos aphrosynes], come è verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro: questo io penso è la verità.
In tal modo Platone sancisce nell'uomo il più radicale dei dualismi, quello di anima e corpo, dove l'anima, o se preferiamo l'io razionale (psyché), potrà recuperare la sua vera natura quando la morte o l'esercizio di morte (meléte thanátou) l'avranno purgata dalla "follia del corpo".
Come massima antitesi alla ragione, il corpo viene a raccogliere in sé tutta la tradizione irrazionalistica del mondo greco che, introdottasi con l'"anima dello sciamano", era stata assimilata dall'"immagine di vita" di Pindaro, e poi ripresa dal "demone" di Empedocle fino alla "follia del corpo" di Platone. A questo proposito è interessante constatare come il corpo, questo contraltare della ragione, costituisca una tentazione costante e mai superata dal pensiero greco, se è vero, come abbiamo visto, che non solo Platone vi si abbandona quando, nel Simposio, parla dell'"éros come daímon", ma, prima di lui, Eraclito, il grande cantore del Lógos, non riesce a sottrarvisi là dove indica il demone come norma di condotta dell'uomo: "Éthos anthrópoi daìmon" .44
Una battaglia inutile allora quella contro il corpo? Probabilmente sì, perché il corpo appartiene alla natura dell'uomo così come il mondo che lo circonda. E una condotta di vita che propone di "sciogliersi dai lacci del corpo" e di "fuggire dal mondo" è solo una condotta di morte per quanto elevati possano essere le idee o gli ideali a cui tende. Del resto già Nietzsche aveva messo in guardia da quell'ordine di pensieri e di valori che si affermano sul misconoscimento del corpo, perché proprio in questo misconoscimento è il loro limite e la loro incommensurabile distanza dall'uomo:
Ogni filosofia che la pace ripone più in alto della guerra, ogni etica che ha della nozione di felicità una concezione negativa, ogni metafisica e ogni fisica che conosce un finale, uno stato terminale di qualsivoglia specie, ogni esigenza prevalentemente estetica o religiosa di un per sé, di un al di là, di un al di fuori, di un al di sopra, autorizza a chiedere se non sia stata la malattia ciò che ha ispirato il filosofo. L'inconsapevole travestimento di fisiologiche necessità sotto il mantello dell'oggettivo, dell'ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli - e abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto un'interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo.
Al riguardo Dodds ritiene che:
Questa non è l'ultima parola di Platone perché già nel Fedro e nella Repubblica noi assistiamo a una mitigazione del conflitto tra l'anima e le passioni del corpo, non più considerate come un'infezione originaria, ma come qualcosa di canalizzabile nel senso della libido di Freud, e quindi di sublimabile.
Da parte nostra osserviamo che, se anche questo fosse vero, il corpo non resta certo riscattato dalla negatività con cui è caratterizzato nel Fedone. Dire, infatti, che qualcosa può es. sere sublimato significa confermare che in sé è qualcosa di perverso, come appunto si dice nel Fedro quando, sotto il giogo dell'auriga e in compagnia di un cavallo bianco molto più disciplinato di lui, il cavallo nero, che rappresenta gli appetiti del corpo, scalpita, e come dice Platone:
È tutto tozzo, malformato; ha il collo grosso, le narici schiacciate; è di colore nero, l'occhio è azzurrastro e intriso di sangue. È violento e sfrontato. È irsuto, sordo, cede solo alla frusta e al pungolo.
Queste sono le immagini con cui l'energia del corpo viene "sublimata dall'evoluzione del pensiero platonico". Sono immagini paradigmatiche che la civiltà e la cultura dell'Occidente, ispirate dal platonismo, hanno sempre applicato a tutto ciò che poteva tornare utile solo nella forma della repressione. È lo stesso Platone a dirlo a chiare lettere:
Questa vicenda può ripetersi molte volte fino al momento in cui il cavallo malvagio, domato, non darà più segni di violenza.
Il distacco dal corpo, a cui si invita nel Fedone, viene così riconfermato nel Fedro dove, all'auspicata separazione dell'anima dal corpo, si sostituisce la "sublimazione" della frusta e del pungolo, con cui si contiene la forza del corpo, del desiderio, della passione, dell'odio, dell'amore, finché il cavallo nero, "umile ormai, segue i criteri dell'auriga, perché paura l'atterra"."
L'atteggiamento di Platone nei confronti del corpo, questa "bestia indomita" come è detto nel Timeo, porta inevitabilmente il filosofo delle idee a non considerare gran cosa (méga ti) la vita umana, e a ritenere addirittura subumana la sorte degli uomini a venire, se è vero che, nella successiva incarnazione, a eccezione dei filosofi, alcuni saranno asini, altri lupi, mentre i métrioi, i rispettabili borghesi, diventeranno api e formiche," cosa questa che, come ben videro gli stessi platonici, e più chiaramente di tutti Plotino, "difficilmente concilia con l'opinione che ogni anima umana sia, nella sua essenza, razionale".
E in effetti le conclusioni non potevano essere diverse stanti le premesse del Fedone, in cui gli esseri umani sono concepiti proprietà privata di Dio. Queste premesse, nonostante le evoluzioni che su questo tema si vogliono scorgere nel pensiero platonico, ritornano immutate nelle Leggi dove detto che "gli uomini, al pari di un gregge di pecore, sono incapaci di reggersi da soli"," che "Dio, e non l'uomo, è miura di tutte le cose"» che "l'uomo è proprietà [ktéma] degli déi", e che "se desidera la felicità deve essere di fronte a Dio umile [tapeinós]" , che, come ci dice Dodds, "è parola che in cuasi tutti gli autori greci e in altri passi dello stesso Platone usata in senso spregiativo".
Alla luce di questi passi, il pessimismo delle Leggi non è frutto di aberrazione senile, ma l'esito inevitabile di un'antropologia che ha preso le mosse dal misconoscimento del corpo a cui, in nome dell'anima, Platone sottrasse persino il suo mondo, quel mondo sensibile che soggiogò allo sguardo iperuranico, dove sono le idee, norme e modello delle cose, e ove un tempo abitava anche l'anima per natura simile alle lee. Partendo da queste premesse non fu difficile in seguito sottoporre tutto allo sguardo di Dio che, come ci ricorda Sartre, "è il concetto dell'altro spinto all'estremo limite". Dio, essenza dell'alienazione, perché sotto il suo sguardo non si più presso di sé, ma es-propriati.
Guardato dall'anima, dalle idee e da Dio, il corpo non è più punto di vista sul mondo, ma oggetto osservato nel mondo; oggetto di valutazioni che, come valori, giungono a qualificarlo, senza che esso possa agire su queste qualificazioni. Un corpo visto, un corpo giudicato, un corpo privato delle sue possibilità, un corpo in pericolo, perché posseduto dalla libertà di chi vede senza esser visto. Di fronte all'anima che ha sconosciuto le idee e che ne porta dentro di sé la memoria, di fronte ai valori espressi dalle idee, di i fronte a Dio causa delle idee, di fronte alle idee, a questi sguardi non visti ma sempre puntati sul mondo corporeo, al corpo non resta altro che la propria abiezione (tapeinós), che è poli l'oggettività a cui è stato ridotto una volta spogliato della sua soggettività.
L'ordine degli oggetti, l'ordine de delle cose è stabilito nella Repubblica, governata ovviamente dai filosofi che meglio di tutti conoscono le idee. Sotto di loro i difensori della città, gli artigiani, gli schiavi, le donne. Più si scende nella gerarchia, più si perde in soggettività fimo a divenire oggettività pura, per cui non c'è da meravigliarsi se nello Stato ideale di Platone i filosofi hanno in comune ile cose e le donne, e se nelle Leggi si dice che:
La cosa principale è che nessuno, uomo o donna, sia mai privo di un guardiano a lui preposto, e ale nessuno acquisti l'abito mentale di prendere alcuna iniziativa sul serio o per scherzo, in base alla propria responsabilità personale. In pace come in guerra, ognuno deve vivere sempre con gli occhi rivolti al guardiano suo superiore, seguendo la sua direzione, in modo da poter essere da lui guidato fin nelle minime azioni. [...] In una parola, dobbiamo addestrare la mente a noni pensare e a non agire come individuo, né a permettersi di agire così.
In questo modo, dal disprezzo del corpo, siamo giunti al disprezzo dell'uomo, perché ogni distanza è stata abolita lungo il sentiero che, dall'apologia dell'anima razionale, ha condotto all'instaurazione della ragione come strumento di razionalizzazione. Se poi sia questo il vero insegnamento antropologico di Platone, nessuno meglio della storia d'Occidente lo può dire. E proprio qui l'Occidente insegna.

Aristotele: il riconoscimento del corpo e la restaurazione dell'unità antropologica -

Nell'affrontare il problema dell'anima Aristotele inizia con un'osservazione metodologica che noi oggi non esiteremmo a definire scientifica:
Coloro che parlano dell'anima e indagano su di essa sembrano prendere in considerazione soltanto l'anima umana. Io invece desidero impostare il problema diversamente e in termini concreti, perché l'anima di un cavallo, di un cane o di un dio non è identica all'anima di un uomo, per cui "anima" assunta nel suo significato universale o è niente o è qualcosa di posteriore. Inoltre esistono diverse funzioni attribuite all'anima, e, dal momento che non possiamo vedere l'anima, dobbiamo procedere da ciò in cui l'anima si manifesta, perché solo basandoci sulle manifestazioni dell'anima e sui fenomeni collaterali possiamo sperare di conoscere ciò che l'anima è.
Anche per l'anima, dunque, Aristotele applica il principio "ópsis adélon tà phainómena" che consiste nel risalire dall'effetto visibile alla causa invisibile. Questo metodo si rivelerà particolarmente fecondo perché, scrive Aristotele:
Se dall'esame dei fenomeni visibili apparirà un'operazione o passione propria dell'anima, allora l'anima potrà esistere separatamente dal corpo, se invece non ce ne sarà alcuna propriamente sua, allora non si potrà parlare di un'esistenza separata.
I primi risultati di questo metodo dicono che al corpo sono da ricondurre: le affezioni dell'anima quali "il coraggio, la dolcezza, il timore, la misericordia, l'audacia, e ancora, la gioia, l'amore, l'odio, perché, quando si producono, il corpo subisce una modificazione"; la percezione perché, dall'esame degli organi di senso, risulta che senza questi strumenti corporei la facoltà percettiva sarebbe impossibile "perciò ne concludo che anche la facoltà di percepire risiede all'interno del corpo"; e infine la stessa memoria su cui Platone aveva costruito la sua teoria della reminiscenza per dimostrare la preesistenza dell'anima al corpo e la sua immortalità dopo la separazione.
L'argomento è svolto nel trattato Sulla memoria e la reminiscenza dove Aristotele dice che "anche gli animali posseggono la memoria che è un processo accompagnato da sintomi fisiologici e perciò non avviene senza il corpo"." A questo punto lo Stagirita non può fare a meno di constatare che:
I miei predecessori congiungono o anche collocano l'anima nel corpo, senza spiegare né la ragione di questa unione, né la condizione del corpo. Eppure questo sarebbe necessario, perché, grazie a tale unione, uno agisce e l'altro patisce, uno è mosso e l'altro muove. Nessuna di siffatte relazioni esiste tra elementi presi a caso. Questi miei predecessori, invece, si preoccupano solo di spiegare qual è la natura dell'anima e di quali elementi essa consiste, ma niente dicono del corpo destinato ad accoglierla. Il loro discorso è come quello di chi dicesse che l'arte dell'intagliatore entra nel flauto, mentre è necessario che l'arte si serva dei rispondenti strumenti, come l'anima del corpo corrispondente.
Non diciamo allora che l'anima s'attrista o gioisce, è audace o timorosa, e ancora che s'adira, percepisce sensazioni, pensa, perché, una volta ammesso che l'attristarsi, o il gioire o il pensare sono movimenti, alcuni di traslazione di certe parti del corpo, altri di alterazione, dire che l'anima si adira è come dire che l'anima tesse o edifica. Dobbiamo allora concludere che non l'anima prova compassione, apprende, pensa, ma l'uomo mediante l'anima [tòn ánthropon té psyché].
Tommaso d'Aquino, nel suo Commentario al De anima di Aristotele, rende molto bene in latino questo passo: "Praestat enim profecto non dicere animam misereri, vel discere, vel ratiocinari, sed hominem ope animae". Dunque non più la separazione platonica tra anima e corpo, ma la loro intima connessione, dove il corpo, se è strumento dell'anima, lo è allo stesso modo di come l'anima è strumento dell'uomo. L'uomo, quindi, e non l'anima è il soggetto restaurato da Aristotele.
Dobbiamo tener ferma questa proposizione come quella che meglio riflette la posizione che Aristotele ha sempre sostenuto, nonostante da più parti si sia voluta scorgere un'evoluzione nel pensiero psicologico dello Stagirita che, a parere di molti, avrebbe percorso almeno tre stadi. A questo proposito ci sia consentita una breve parentesi filologica che provi l'inesistenza di questa evoluzione, e quindi l'impossibilità di privilegiare uno degli stadi facendo dire ad Aristotele quello che torna più utile alla tesi che ciascuno vuol sostenere.
Secondo la teoria di Nuyens," divenuta dominante grazie al consenso dei più autorevoli studiosi di Aristotele quali Mansion, Ross e Gauthier, l'evoluzione del pensiero psicologico dello Stagirita prevede: 1) lo stadio dell'Eudemo in cui Aristotele sostiene le tesi platoniche, 2) lo stadio degli Analitici e delle Etiche in cui intende il corpo come strumento dell'anima e 3) lo stadio de L'anima e dei libri più recenti della Metafisica in cui considera l'anima come entelécheia, ossia come forma e attuazione del corpo.
Ora, tranne che nell'Eudemo, come osserva opportunamente Düring,76 Aristotele si limita a esporre le teorie esistenti sull'immortalità dell'anima senza indicare, come ci dice Alessandro, il proprio punto di vista (ídios skopós), la classificazione di Nuyens non tiene assolutamente conto del metodo di Aristotele, che di volta in volta cambia le definizioni dell'anima, non perché il suo pensiero subisca un'evoluzione, ma perché affronta l'argomento da punti di vista diversi.
Infatti, quando Aristotele parla dell'anima da un punto di vista fisico la chiama "forza del corpo [dynamis sómatos], origine del movimento"77; quando ne parla dal punto di vista biologico la identifica con la vita: "l'anima [psyché] è identica a vita [bíos], e come tale non è separabile dal corpo"; infine, quando considera l'anima da un punto di vista fisiologico, se procede dalla teoria della forma e della materia la definisce forma del corpo (morphé sómatos), se parte dalla teoria dell'atto e della potenza la concepisce come attività del corpo (enérgheia sómatos), se prende le mosse dalla teoria del movimento la intende come sua causa e suo principio (sómatos aitía kaì arché), se infine parte dalla teoria del télos la considera come attualizzazione compiuta del corpo (entelécheia sómatos physikou). Tutte queste definizioni non segnano un'evoluzione del pensiero di Aristotele, ma, come giustamente osserva Düring, rappresentano altrettanti "tentativi di precisare l'enigmatico fenomeno dell'anima considerandola da sempre nuovi angoli di visuale".
Da tutte queste definizioni emerge un dato incontrovertibile: per Aristotele l'anima non è separabile dal corpo. Per lui non ha più alcun senso quella socratica "cura dell'anima" che, come ci dice Platone, consiste "nel separare il più possibile l'anima dal corpo e nell'abituarla a raccogliersi e a restare sola con se stessa sciolta dai vincoli del corpo come da catene"."
Ne L'anima e nei Topici,  infatti, Aristotele respinge ripetutamente le definizioni platoniche dell'anima quale realtà immortale (athánatos), ingenerata (aghénetos), incorruttibile (áphthartos), incorporea (asómatos), sempre attiva (aeikínetos) e semovente (autokínetos), perché tutte le funzioni dell'anima, con la sola esclusione dell'intelletto (nous), hanno per Aristotele legami di natura fisiologica con il corpo. Resta il problema dell'intelletto, a proposito del quale lo Stagirita afferma:
Alcuni dicono a ragione che l'anima è la sede delle forme del pensiero; in realtà, essa non lo è nella sua totalità, ma solo come anima intellettiva, e solo nel senso che essa possiede la capacità di ricevere le forme.
Come è noto Aristotele individua un intelletto recettivo detto nous pathetikós, non perché sia passivo, ma perché è affetto dalle impressioni che riceve dal mondo esterno. È un intelletto che talvolta pensa e talvolta no, ha un destino del tutto simile a quello del corpo, perché:
Nel corpo le immagini della rappresentazione stanno come le impronte di un sigillo, per cui ciò che è pensato, amato, odiato da questo intelletto muore insieme al suo depositario.
Poi Aristotele parla di un intelletto attivo o costruttivo (nous poietikós) che "fa tutto [pánta poiei]", a proposito del quale dice:
Questo intelletto è separato [chorísmos], impassibile [apathés] e senza mescolanza [amighés] perché nell'essenza è atto. [...] Separato, esso è solo ciò che appunto è, e questo solo è immortale ed eterno. Noi non lo ricordiamo perché questo intelletto è impassibile, mentre l'intelletto passivo è corruttibile e, senza di questo, quello non può pensare.
È questo il passo più celebre di tutta L'anima e, per il nostro assunto, quello decisivo, perché in esso si solleva e si lascia insoluto il problema del rapporto dell'intelletto attivo con l'anima e il corpo di ciascun individuo. Su questo punto la storia dell'aristotelismo, a partire dall'interpretazione di Alessandro di Afrodisia86 fino agli sviluppi arabi, tomisti e umanistici, sarà particolarmente appassionata in una polemica destinata a durare per molti secoli e ancora oggi non conclusa.
A me pare che il testo aristotelico qui esprima due concetti: 1) separato dall'intelletto recettivo, dunque dopo la morte dell'individuo, l'intelletto attivo è soltanto ciò che esso è, cioè soltanto veramente se stesso; 2) nessun ricordo può sopravvivere perché l'intelletto attivo non mantiene alcuna traccia di ricordo, e l'intelletto recettivo, che conserva queste tracce, è corruttibile.
Da queste affermazioni si deduce: 1) che l'intelletto attivo "separato", dopo la morte dell'individuo, non ha più assolutamente nulla in comune con la sfera umana; 2) non esiste alcuna forma di reminiscenza platonica, perché l'intelletto attivo "separato", che è l'unico elemento immortale, non porta con sé alcun ricordo della vita terrena.
Se queste deduzioni sono plausibili allora è possibile concludere che l'intelletto attivo "separato", come ce lo presenta Aristotele, è identico all'intelletto divino nóesis noéseos, e come tale, lo ripetiamo, non ha nulla a che fare con la sfera dell'umano, mentre l'anima coincide con l'intelletto recettivo, strettamente legato alla funzionalità del corpo e alle sorti del corpo fino a identificarsi con questa funzionalità e queste sorti. In tale interpretazione siamo confortati da un altro passo dove Aristotele, dopo aver detto che "l'anima è l'attuazione [entelécheia] del corpo", aggiunge:
Bene pertanto suppongono quanti ritengono che né l'anima esiste senza il corpo, né essa è un corpo. Corpo certo non è, ma qualcosa del corpo [sómatos dé ti] e per questo è nel corpo e in un corpo di determinata natura, e non come volevano quanti ci hanno preceduto, che l'adattavano nel corpo, senza di questo determinare la natura e la qualità, sebbene non si noti mai che una cosa qualunque accolga una cosa qualunque.
Impostando per primo il problema in termini "biologici", cioè di vita (bíos), Aristotele può definire l'anima come "qualcosa del corpo [sómatos dé ti]" , stabilendo una volta per tutte che la vera differenza di natura non è come aveva detto Platone tra l'anima e il corpo, ma, come aveva detto Omero, tra il corpo vivente impegnato in un mondo e il cadavere ridotto a cosa nel mondo. Di qui la conclusione di Aristotele:
Affermiamo dunque, dopo aver dato inizio alla ricerca, che chi ha l'anima si distingue da chi non ce l'ha per l'atto del vivere.
Eppure, nonostante Aristotele, l'Occidente non avrà alcuna esitazione a proseguire lungo la via tracciata da Platone, la cui antropologia dualistica e profondamente ostile ai valori del corpo non tarderà a catturare quell'altra sorgente del pensiero occidentale costituita dalla tradizione giudaico-cristiana che, in tutta la sua storia, era sempre rimasta fedele a quella visione unitaria dell'uomo, dove decisivo non era il rapporto praticamente sconosciuto tra anima e corpo, ma quello quotidianamente vissuto dell'uomo con Dio.
L'assorbimento dell'antropologia giudaico-cristiana nel modello concettuale greco consoliderà quella divisione tra anima e corpo su cui Cartesio non avrà "alcun dubbio" quando, introducendo la nota distinzione tra res cogitans e res extensa, sottrarrà l'anima a ogni influenza corporea per risolverla nel puro intelletto, nell'ego intersoggettivo che, con le sue cogitazioni rigorosamente eseguite, esprimerà ogni possibile senso del mondo e il significato di ogni io personale e soggettivo che abita il mondo.

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