Le verità di Céline: la notte e la morte -
Le verità di Céline: la notte e la morte -
"Bisogna sentire nel fondo di ogni musica il motivo senza note fatto per noi, il motivo della Morte"
Louis-Ferdinand Céline
In Céline si ritrovano le stimmate caratteristiche dei grandi
scrittori, le persecuzioni da parte di coloro che nel loro quieto vivere
si sentono irritati da uno spirito anticonformista e polemico,
l'inappagato desiderio di totale libertà per una meditazione in
solitudine lontano dagli ambienti in cui tutte le classi sociali,
aristocratiche e proletarie, perseguono con avidità gli stessi miseri
privilegi, la ricerca laboriosa di uno stile personale per esprimere
emozioni e ossessioni, per esternare denunce e invettive, il risultato
di una scrittura dai contenuti mai consolatori ma scomodi e disperanti,
provocatori e volutamente esagerati, i totali fraintendimenti di
imitatori e critici, gli stravolgimenti compiuti dai lettori sui
contenuti delle opere, sul pensiero dell'autore, le falsificazioni e le
ignobili diffamazioni.
Un forte senso della morale lo porta a polemizzare contro le
istituzioni, la scuola, la famiglia, l'esercito, la fabbrica, la società
massificata, le accademie, la falsa letteratura degli impostori;
disarmato e solo contro tutti, si deve difendere da coloro che lo
accusano di collaborazionismo, lo esiliano, lo condannano a morte, lo
imprigionano; si sente reietto, "ridotto a capro espiatorio puzzolente"
proprio lui che è stato decorato al valor militare durante la prima
guerra mondiale, che ha salvato con falsi certificati medici molti ebrei
dalla deportazione nazista, e per questo poi difeso dal Movimento
Nazionale Ebraico, che ha intrapreso con passione la professione medica
"per le sofferenze senza senso del genere umano", per quei poveri, già
malati di povertà, che affollano il suo ambulatorio e dai quali non vuol
essere pagato nonostante le sue continue preoccupazioni finanziarie,
come scrive Ernst Jünger che lo incontra durante l'Occupazione mentre
"distribuisce tutto il suo guadagno alle prostitute che, con tutte le
loro malattie, ricorrono alle sue cure"; deve avvalorare che i suoi
libri giudicati violenti sono invece contro la violenza, deve
addirittura difendersi dagli attacchi di altri scrittori, astiosi per la
sua estraneità a qualsiasi appartenenza e per il suo successo, e
soprattutto dagli intellettuali di sinistra, tra i quali primeggia
Jean-Paul Sartre che lo accusa di avere una visione del mondo
catastrofica e di essere al soldo dei nazisti, intellettuali impegnati a
nascondere le ignominie dei dittatori e dei regimi sovietici, quindi
irritati dall' atteggiamento polemico di Céline verso la Russia
comunista, che ha visitato nel 1939, con gli orrori di Stalin.
La visione del mondo che Cèline ha, o che va ancora definendo, gli
può sembrare a volte da collegare a certe posizioni di movimenti
politici, di conservazione o di reazione, in qualche modo al
conservatorismo del nazismo, come è successo a Benn e Hamsun, anche loro
accusati ingiustamente di collaborazionismo, di essere nazisti. In
effetti prestano la loro genialità a quelle ideologie ma ben presto
comprendono l'equivoco, la discrasia fra politica intesa in senso
pratico e l'immagine intellettuale del filosofo, del poeta, sulle cose e
sui fatti dell'esistenza. La politica con le sue malefatte coinvolge
scrittori in responsabilità che non hanno, laddove le loro visioni a
lungo raggio si incontrano e scontrano con le ottiche miopi della
dimensione storica. Mentre per altri scrittori le conseguenze di tale
inganno portano fucilazioni e suicidi, Gottfried Benn, "l'imperdonabile"
come lo definisce Cristina Campo con un pregiudizio viziato dalla
politica, sta isolato dietro la sua divisa di maggiore medico nella
Wehrmacht cercando di preservare la propria individualità diversa e
restando super partes anche quando le sue posizioni antistoriche e
antidemocratiche mediate da Nietzsche, gli fanno supporre che il nazismo
dalle implicazioni mitiche e mistico-politiche possa ripristinare la
pura legge dorica della Forma liberando dal caos e superando il vuoto di
valori con una nuova realtà etica; poi si chiude in solitudine con la
sua disillusione e la sua idea di una missione del poeta al di sopra
della Storia, non prima di aver espresso contrarietà e disprezzo alle
degenerazioni naziste e alla letteratura engagée, malvisto dagli stessi
nazisti che gli impongono il silenzio. Knut Hamsun, imprigionato,
dichiarato infermo di mente, dopo che gli sono stati confiscati i beni,
costretto a subire l'infamia di un processo, si autodifende mostrando un
atteggiamento di disgusto sprezzante nei confronti del Tribunale, uno
sguardo di disprezzo per quei giudici rivolti al contingente, e afferma
la propria superiorità interiore, così che anche le sue ammissioni di
fragilità sono rivendicazioni di una propria moralità che non ha nulla
da spartire con quel contesto, e in definitiva il processo da iniziale
difesa personale si risolve in una lezione di etica. Anche Jünger, che
aveva idealizzato l'ideologia nazionalsocialista e la guerra, scrive
opere antihitleriane rischiando la morte.
Céline, che esprime con veemenza tutta la propria rabbia quando
viene attaccato, comprende che sono tutte lezioni per stare lontano
dalla politica, come del resto, attento lettore dei classici, ha appreso
da Platone di Repubblica, che voleva espellere i poeti dal governo
dello Stato, tenerli fuori perché non hanno concretezza, non sono adatti
all'arte di gestire la cosa pubblica; in effetti Céline ha creduto nel
pacifismo hitleriano ma non ha mai fatto parte di movimenti e
associazioni politiche, né ha scritto su riviste collaborazioniste, come
fece Sartre. Detestato dalla Germania ufficiale, considerato un
anarchico insopportabile, come autore è messo al bando da quando Hitler
prende il potere; Céline è convinto che se la Germania avesse vinto la
guerra, la Gestapo lo avrebbe assassinato.
E' dunque questa la biografia vera, che si ricostruisce mettendo in
ordine le sue opere secondo la cronologia delle vicende raccontate, con
estrema attenzione alla finzione letteraria e con riscontri su documenti
incontrovertibili, alla elaborazione con la fantasia dei dati reali,
una dimensione biografica che, dall'identificazione quasi profetica con
il dottor Semmelweis alla fuga attraverso la Germania bombardata, mostra
il fallimento della fantasia e della poesia schiacciate dalla realtà.
Come lo scrittore, dannato e maledetto, scrive sotto l'ossessione
della morte, così i protagonisti e i personaggi dei suoi romanzi,
sconfitti dalla Storia e dal Destino, vivono tra situazioni tragiche e
surreali, perseguono un itinerario drammatico, che è anche
contemplazione e scelta, o imposizione, della morte. Seguendo questo
ordine interno degli avvenimenti si ha una nuova recherche proustiana
che non è più quella della Belle Époque, che Céline ha visto morire, ma
della brutta époque, con castelli e stazioni che prendono fuoco, con il
trionfo della morte, un Walhalla senza eroi, affollato di cadaveri lordi
di fango o sventrati tra le macerie, invischiati nel bitume stradale.
I ritagli dalle opere e dalle interviste di Céline appaiono come in
forma di aforisma, un ulteriore legame di Céline ad un pensatore
fraterno, l'inattuale Friedrich Nietzsche; sono contraddistinti da un
acceso espressionismo simile a quello di Benn e di Thomas Bernhard: Benn
che ammirava molto Céline, nicciano puro, poeta cinico e disperato,
medico e scienziato dalle polemiche antiscientifiche, con il suo tavolo
d'obitorio su cui deve come scrittore conferire "espressione", tragica, a
ciò che si va tramutando in cenere, al tramonto di un mondo, ad una
visione di nichilismo assoluto o meglio di pessimismo esistenziale, per
costruire una morale e una metafisica nuove, per tentare di far nascere
un uomo superiore, Bernhard con il suo senso di disfacimento e di morte,
con gli ossessivi monologhi che si avvitano su se stessi senza via
d'uscita e avviano libri che restano incompiuti e che hanno sempre
bisogno di essere riscritti. Con le parole di Benn, nel saggio dal
titolo "Espressionismo", si intende meglio l'imput della scrittura
céliniana e del suo stile: "La lirica frammentata di Nietzsche e quella
di Hölderlin sono puramente espressionistiche: caricamento della parola,
di poche parole, con un addensamento enorme di tensione creativa, in
realtà più un afferrare parole dalla tensione, e queste parole afferrate
per via solo mistica vivono poi con un potere di suggestione
inesplicabile nella realtà" (1);
l'espressionismo è l'arte di fare
assurgere la realtà interiore a legami formali, a forme rappresentative
che contrassegnano uno stile, è l'ultima arte dell'Europa in cui è
preservato l'ultimo raggio del mondo greco, arte astorica e apolitica,
contro-arte, che contrasta il distruzionismo di stampo marxista e
comunista.
Céline inizialmente crede soltanto nella propria vocazione di
medico, che lo porterà perfino a creare medicamenti per laboratori
farmaceutici, e gli pare quasi ridicolo aver iniziato a scrivere; poi la
scrittura, in un complesso universo letterario che non può essere
consolatorio, diviene per lui un impegno gravoso, una maledizione; in
effetti su Céline, che sarà considerato maledetto, profetico e
oracolare, si abbatte la maledizione, e la disperazione, fin da quando
fonde in scrittura le tensioni delle vicende biografiche, le riflessioni
su un mondo che sta andando verso la catastrofe, i pensieri sull'arte e
sulla società, le elucubrazioni di chi ha scelto una morale diversa, al
di là del bene e del male.
Lo scrittore è condannato a un duro, "tremendo", lavoro per avere un
proprio stile, che vuole diverso dalla scrittura degli autori
contemporanei, "ridicola" e incapace di esprimere "guts", le viscere
(2);
da subito Céline lo cerca attraverso la sua stima per la lingua
classica francese e per l'argot, sperimenta la scrittura con
un'attenzione che si fa passione, "La minima virgola mi appassiona", "Io
sgobbo sul pezzo" (3),
odia la fretta nella scrittura, scrive in
continuazione, addirittura passa giornate, e a volte mesi, a ritoccare
alcune frasi, a scegliere tra vocaboli e forme diverse, a rileggere le
bozze prima della pubblicazione; soltanto attraverso ricerche
linguistiche e lunghissime rielaborazioni ottiene una scrittura capace
di esprimere le emozioni, la petite musique, melodia dell'anima, del
movimento interiore; prende coscienza di poter così rivoluzionare la
letteratura francese.
Nella tesi di laurea del 1924, già un'opera letteraria, da lui
stesso considerata il suo primo romanzo, Céline sembra addirittura
intuire il proprio destino nella figura di Semmelweis il dottore
austro-ungarico che contro i pregiudizi debella la micidiale infezione
puerperale, benefattore incompreso, allontanato da ospedali, dalla
Maternità di Vienna e da quella di Budapest, da società mediche,
ignorato dall'Accademia di Medicina di Parigi, emarginato e
perseguitato, spinto alla follia e ad una morte precoce.
Céline
sottolinea l'assurdità della storia e la tragedia personale in questa
tesi da "l'esprit schopenhauerien" (4),
da grande musica, "una vasta
marcia funebre di compianto dell'eroe" (5).
In effetti, come osserva Stefano Lanuzza, non si capisce Céline
senza conoscere questo suo libro dell'esordio molto diverso da quelli
successivi (6).
Già Pol Vandromme, nel primo saggio francese tradotto in
italiano, Louis Ferdinand Céline, nel 1964 dall'editore Borla,
evidenziava i motivi de La vie et l'oeuvre de Philippe Ignace
Semmelweis. 1818-1865, poi ricorrenti in tutte le opere, a iniziare dal
senso della morte, e citava: "La morte urlava nella schiuma sanguinante
delle sue diverse legioni", "Nella storia dei tempi la vita è solo
un'Ebbrezza, la Verità è la Morte". Come Semmelweis, Céline vede negli
ospedali la vita decomporsi, le sofferenze, la morte prevalere.
Questa tesi, in cui Céline ha scelto di fare un'esposizione da
medico su un altro medico, scrivendo un libro sul pregiudizio e sulle
sue nefaste conseguenze per la vita di un uomo fuori dal comune, già
svela la personalità complessa dello scrittore. L'attenzione è sul
patologo che accerta il male del mondo, l'inutile, e non sa perché, è
sul genio che scopre senza che ci siano gli elementi della scoperta,
senza una verità precostituita.
Anche se Il dottor Semmelweis è in forma diversa rispetto ai libri
successivi, tutto ciò che Céline scriverà in seguito sarà segnato
profondamente da questa prima opera sul pregiudizio e sul senso di
ribellione e di libertà. In attesa di smascherare altre false credenze,
come quelle che derivano dalle dottrine filosofiche e come quelle legate
al linguaggio comune, Céline già scarta gli idola fora, ottenendo una
reductio, una riduzione della visione esistenziale senza pregiudizi e
convinzioni a priori, un'operazione con il rasoio di Occam che accantona
ciò che è inutile e superfluo facendo emergere soltanto l'essenziale.
La sua scrittura è fortemente legata alla sua professione medica che lo
fa sentire, come dice la moglie Lucette, "au coeur des choses, au centre
de la vie, dans l'essentiel" (7);
è da lì che prende le mosse, è da
quel contesto che trarrà sempre ispirazione.
Di Céline medico-umanista si rivela importante anche la conferenza
tenuta nel 1928 a Parigi presso la Société de Médecine sulle condizioni
di lavoro della fabbrica Ford, con soggetti robotizzati alla catena di
montaggio "completamente privi d'immaginazione e di senso critico, dei
cretini", schiavi malati, alienati, rassegnati, ingoiati da ingranaggi
dove, come sarà per Charlot in "Tempi moderni", avvitano solo bulloni
fino alla follia.
Viaggio in fondo alla notte, come Lanuzza traduce il titolo del
romanzo con più aderenza a quanto scrive Céline, "rivoluziona la storia
della letteratura, le strutture del romanzo, il modo di scrivere, (...)
rompe tutti gli schemi narrativi tramandati e si presenta come un'"opera
aperta" scevra di moduli concettuali, un "antimodello" di scrittura
romanzesca, (...) accoglie e rivoluziona la tradizione naturalistica,
(...) è una condanna dei misfatti della prima guerra mondiale e un
presentimento della prossima guerra nazifascista, (...) come sospeso in
una nebbia decadente e surreale, è una dichiarazione di doloroso
moralismo e, insieme, di rancore, odio, rivolta ossessiva contro il
mondo e lo stato di cose: contro la retorica della patria, contro la
borghesia, il perbenismo ipocrita e il capitalismo usuraio. Contro gli
uomini che, nella guerra, perdono ogni alibi e rivelano se stessi, (...)
libro antimilitarista, anticolonialista, anarchico, nichilista, è una
fenomenologia narrativa, il drammatico manuale di quel caos che,
nell'Europa di primonovecento sembra avvolgere l'umano consesso" (8).
Dopo aver definito il protagonista alter ego di Céline, Ferdinand
Bardamu, "dostoevskijano "uomo del sottosuolo" inadatto alla vita
sociale, nostalgico dell'infinito, reietto metafisico", Lanuzza per
questo romanzo pur senza precedenti cita opere di Dabit, O' Neill, Zola,
Gide e Remarque, che hanno certe assonanze con il Viaggio;
l'"insignificante visionario" di Céline dalle "ingarbugliate peripezie"
era già stato paragonato al bravo soldato Švejk di Hašek per "la stessa
inspiegabile brama guerrafondaia" (9),
anche se sembra più comune
l'intreccio di farsa, a volte comicità stralunata, e tragedia; la
tragica comicità e il grottesco dell' apparato bellico sono ben
evidenziati anche da Paul Klee, gli equipaggiamenti sudici vanno dove
vogliono, la divisa da maschera, da burattino, gli elmi ridistribuiti
dopo essere stati lordi di sangue.
Il senso di decadenza che permea questo primo romanzo, e che rimarrà
centrale nel suo pensiero e una costante nelle opere successive, è
definito in una delle prime interviste: "La miseria umana mi sconvolge,
fisica o morale che sia. (...) Oggi il mondo è pieno di miserabili, e la
loro angoscia non ha più alcun senso. La nostra epoca, del resto, è
un'epoca di miseria senz'arte; una cosa penosa. L'uomo è nudo, spogliato
di tutto, anche della fede in se stesso" (10).
Fin dai tempi dell'infanzia a Montmartre, e soprattutto poi al
Passage Choiseul, "la cui atmosfera malsana e magica si stamperà sul
bimbo per sempre" (11),
Céline conosce, da una prospettiva che è quella
della miseria, lo squallore e le abiezioni della periferia, lo schifo
dell'umanità, l'abbrutimento esistenziale e sociale, gente senza fede e
senza fantasia che ha come unico problema quello di mettere insieme il
pranzo con la cena: "Bisogna dire che il Passage, non ci si crede come
putridume. (...) E' più infetto del sotterraneo di una prigione", "...
che si vedono dei mostri... gente né morta né viva né altro... Mi
allucinavano quelle maschere verdastre... e se ce n'erano nel Passage!",
come scriverà in Morte a credito e in Pantomima per un'altra volta.
In questa sua fanciullezza, nei diciotto anni trascorsi a Passage
Choiseul, si annida l'universo di Céline; da qui, con una continua
rielaborazione interiore, il disgusto e l'odio per i mostri che ha
visto, per quelli accidenti che ha vissuto di persona; da qui gli
attacchi feroci alle disfunzioni dell'essere, dovunque le troverà nella
borghesia come nel proletariato, nel nazismo come nel comunismo.
L'esperienza diretta e gli elementi biografici sono all'origine del
suo carattere complesso, spigoloso e aspro, e al tempo stesso generoso e
magnanimo, che a volte può sembrare ambiguo, come nel trattare gli
editori con pervicacia che può apparire egoismo; esperienza ed elementi
di una polarità positiva e negativa, importanti nel loro assumere un
carattere universale andando a costituire l'aspetto centrale delle sue
opere, e determinanti nel provocare squilibrio nella prosa.
Il Viaggio, iniziato a scrivere nel 1929 e edito nel 1932, con le
sue innumerevoli storie che si intrecciano e si richiamano, ha risultati
estetici e di contenuto che lo rendono più compatto rispetto agli
scritti successivi più ibridi; apre spiragli sempre più ampli sull’animo
dell’autore, è di maggiore interesse e utilità per un’indagine sul
mondo biografico e fantastico di Céline, sulla sua visione della
letteratura, egocentrica, una vasta ragnatela al cui centro è sempre lo
stesso Céline.
Non ha comunque mai quiete la sua ricerca di una scrittura dal ritmo
musicale, teso a riordinare il caos sulla pagina, una ricerca sugli
esempi lontani, sulle invenzioni e sui contenuti, delle lugubri ballate
di Villon e del romanzo "carnevalesco" (12)
e polifonico di Rabelais.
Influenze sulle sue opere provengono anche dai pittori, con un risultato
visivo che rimanda a Greco, Goya, e a quelli che lo stesso Céline
indica come i suoi pittori preferiti, Bruegel e Bosch; è consapevole
delle sue affinità con Bruegel, fin da quando, a Vienna nel 1932, ammira
il "Combattimento fra il Carnevale e la Quaresima", il quadro del
delirio e della follia, che infatti chiama "Fête des Fous": "Je ne me
réjouis que dans le grotesque aux confins de la mort. Tout le reste
m'est vain"; è emotivamente attratto da Bosch visionario e apocalittico,
per la capacità di focalizzare da medico le malattie mentali, e di
mostrare, più di Bruegel, l'uomo al suo massimo grado di cattiveria,
malvagità e sadismo (13).
Così come la sua lingua letteraria nuova ha modelli che risalgono
alle origini della letteratura francese, anche i contenuti che
sembrerebbero rivoluzionari in effetti fanno parte, in maniera ben
radicata, della tradizione francese, fino all’Ottocento, con la continua
presenza della biografia personale, di un intimismo legato ai luoghi, e
con elementi fantastici.
Céline tiene presente la miglior letteratura francese fino ai
racconti fantastici di Gautier, ai romanzi d'avventure di Verne con lo
scontro tra realtà e fantasia, agli impianti visionari e alle figure
simboliche di Hugo, al gusto decadente di Baudelaire, agli itinerari
spirituali di Verlaine, Mallarmé e Rimbaud; conosce senz’altro il primo
romanzo di Queneau Il pantano, che ha successo immediato di critica e di
pubblico, e le espressioni del movimento surrealista.
Da questa visione della tradizione, dal suo attaccamento a questi
generi letterari, nasce la forte polemica contro quella che considera la
cattiva letteratura francese, dalla scrittura razionale del Settecento,
alle strutture del romanzo ottocentesco, al realismo degli scrittori
impegnati e allo psicologismo della maggior parte degli autori del
Novecento. Da qui scaturisce il suo disprezzo per i rappresentanti di
questa letteratura da Zola a Sartre, da Malraux a Mauriac, che tra
l'altro hanno assunto potere, preteso privilegi, mostrandosi astiosi e
invidiosi verso gli altri, e in particolare verso di lui; una certa
veemenza della sua scrittura è dovuta al desiderio di voler essere
sgradevole per questi "paladini della grande letteratura" che lo
avversano in modo vile invece di difenderlo, nonché per giornalisti e
critici, tutti "ciarlatani", che "non fanno altro che dire scempiaggini,
fingono di fare qualcosa con il pettegolezzo e lo sciacallaggio di
bassa lega" (14);
così per le ingiurie e i torti subiti le eruzioni del
suo linguaggio si fanno ancor più incandescenti, ora contro i "circoncis
de la grammaire", i "châtrés de l'académisme". Céline non dimentica mai
le amarezze e le umiliazioni che subisce costantemente durante tutta la
vita, e si lamenterà più delle sofferenze morali che di quelle fisiche,
quando da Copenhagen, pensando anche ai circoncisi e ai castrati delle
patrie lettere, scriverà a Marie Canavaggia: "La mia anima è stata
distrutta" (15).
In Morte a credito, del 1936, è chiaro l'insieme di fallimenti che
contrasta col tentativo di vita naturale e di fantasia, a causa del
debito che ognuno ha contratto nascendo: la vita è "morte a credito",
una morte anticipata, un credito che viene fatto a chi vive. In questa
opera è già tutto il male di vivere, il senso di tragedia greca che
contraddistingue il pensiero di Céline; nei cori di Sofocle è detto che
sarebbe preferibile non essere mai nati, ma che vivendo la cosa migliore
è tornare al più presto là da dove si è venuti, e Eraclito sentenzia:
"Una volta nati, vogliono vivere pur avendo un destino di morte, ma
ancor più vogliono riposare; e lasciano dietro sé figli perché nascano
destini di morte" (16).
Céline segue i destini di morte dei suoi personaggi che vivono tra
situazioni tragiche e dimensioni fantastiche, scrive sotto l' ossessione
della terribilità della morte. Il suo editore, Robert Denoël, ricorda
il loro primo lungo incontro: "Je me trouvais en face d'un homme aussi
extraordinaire que son livre, (...) d'une lucidité extrême, désésperé à
froid, et cependant passioné, cynique mais pitoyable. (...) Il me parla
de la guerre, de la mort, de son livre (...) comme quelqu'un qui est
revenu de touts les comédies, de toutes les illusions. Son expression
était toujours forte, imagée, hallucinante. L'idée de la mort, de la
sienne et de celle du monde, revenait dans son discours comme un
leitmotiv. Il me décrivait une humanité affamée de catastrophes,
amoureuse du massacre". Céline, in un'intervista del 1960, dirà: "Morte a
credito è questo, simbolicamente: l'essere morto come ricompensa di
tutta una vita. Basta vederla come se...non fosse certo il buon Dio a
farle le regole, ma il diavolo" (17).
Da Morte a credito, "grande fenomenologia di ossessioni: appunto
ossessione della morte, che, doppiata da un disperato desiderio di
vivere, introduce gli assilli della miseria, del dolore, della
solitudine" (18), si passa, seguendo l' ordine cronologico delle opere, a
Mea culpa, il libello antistalinista, scritto quando il "socialismo
reale" si rivela un "fascismo rosso", con masse controllate dalla
"polizia più numerosa, più sospettosa, più carogna, più sadica del
pianeta". E' un inganno il mito eroico del proletariato e ogni vittima
dello sfruttamento aspira a sfruttare a sua volta. Céline nelle sue
invettive continue paragonerà Hitler a un clown pervaso di "satanismo
wagneriano", una locuzione che sarebbe piaciuta a Nietzsche. Céline
continua a guardare con preoccupazione i totalitarismi dilaganti sul
grande scenario della Storia, le fedi nel progresso e nelle rivoluzioni,
che sa essere illusioni che portano allo sfacelo.
Se la società è pervasa da questi perversi meccanismi
autodistruttivi, non è certo migliore il mondo dell'editoria, quello che
attraverso la letteratura dovrebbe formare le coscienze.
Nell'intervista immaginaria sulla letteratura, Colloqui con il professor
Y del 1955, Céline sembra ironizzare ma è un gran rammarico accorato
quello che esprime nel constatare che si pubblicano soltanto "compitini
sarcastici, compitini archeologici, compitini proustici, compitini senza
capo né coda, compitini! compitini nobelici... compitini anti-razzisti!
compitini per piccoli premi! per grandi premi!...Compitini Pléiade!
Compitini!...", "patacche" di ogni tipo con "innovazioni conformiste"
che si vendono soltanto perché pubblicizzate.
Céline conosce le meschinerie degli pseudo scrittori, "impegnati
...fino allo scroto! ...in tre, quattro, cinque, sei Partiti", degli
editori interessati solo al guadagno, dei librai che "preferirebbero
chiudere bottega piuttosto che avere, anche solo in magazzino, una copia
del Viaggio", dei critici da accademie e da premi letterari, sa le
difficoltà di comprensione sia dell'"élite" sia della massa ritardata
dei lettori; tiene sdegnosamente a distanza tutti costoro che, senza
competenza, si sentono in dovere di ruotare intorno alla sua torre
d'avorio, lo perseguitano, lo costringono a difendersi dicendo di non
aver idee, di essere contrario alla dialettica e ai dialettici, lui
inventore non di chiacchiere né di messaggi ma di magia, di una tecnica
nuova e opposta allo stile tradizionale e accademico, l'"emozione del
linguaggio parlato attraverso lo scritto", così sfuggente ed evanescente
che si raggiunge solo con un'enorme fatica e un'infinita pazienza.
In questa intervista che è in effetti un lungo monologo di forti
accuse, all'apparenza farneticanti ma estremamente precise, nei
contenuti e negli obbiettivi, Céline non soltanto diffida
dell'intervistatore inventato, Professore mascherato da Colonnello o
viceversa che, aspettando "ben altro" da lui, "non ha capito un
accidente" e vuol portare la conversazione su "qualcosa di attuale", non
solo teme di essere ascoltato da spie pronte a diffamarlo, ma diffida
anche del proprio stile che altre mani copiano, lo attualizzano
togliendogli così la sua forza dirompente, lo rendono materia da
accademie, riescono pian piano a farlo addirittura diventare anch'esso
"patacca".
Letteratura, dunque impegno culturale e scuola: "gli scolari non si
salvano e i professori nemmeno! niente che si salvi!... docenti,
scolari, bidelle, portinaie fan tutt'uno!... sindacati-paranoia!... come
passano il tempo a scuola gli alunni, i professori?... mettono a punto i
loro diritti a tutto!... alla pensione... alle vacanze!". Céline parla
di Arte, ammira la capacità degli Impressionisti nell'aver reagito alla
fotografia fissa inventando la "resa" del plein air, un'emotività simile
alla petite musique della sua scrittura, e critica la Musica, quella
classica "roba da giostra!", e quella moderna "piena d'odio! di tutto
l'odio dei gialli e dei neri contro la musica dei bianchi!". Céline con
il suo "io" distaccato difende se stesso, "Io sono il genio delle
lettere", e la propria scrittura, la stessa che usa nell'intervista, con
i tre puntini di sospensione, "binari" per il suo "magico metrò",
binari "che sembrano dritti e mica lo sono! ...". L'intervistatore,
emblema del conformismo, ne è travolto, impazzisce. Céline, il
benefattore maledetto, conosce il senno nella follia e la follia nel
senno.
Per il Céline di Bagatelle per un massacro, pubblicato nel 1937,
basterebbe citare alcuni esempi di nomi che nella trasfigurazione
letteraria si fanno simboli, dal David Strauss di Nietzsche, il
prototipo del determinismo scientifico e del filisteismo borghese, di
una borghesia che vive soltanto in funzione dei beni materiali, al
Pietro Zorutti di Pasolini, il rappresentante del peggior provincialismo
e del conservatorismo, della poesia vernacolare senza valori di stile e
di significati.
Attraverso il bersaglio simbolico, su cui sono scagliati gli strali,
i toni accesi del linguaggio, provocatorio e sarcastico, iperbolico e a
volte addirittura violento, si chiarisce meglio il concetto, il senso
di polemiche strettamente letterarie che scaturiscono sempre dalle
inquietudini e dai timori dello scrittore, dall'impegno morale di
scardinare i falsi valori, di educare, e di proporre nuove esigenze.
L'ebreo è per Céline il simbolo, l'insieme di ciò che l'autore di
Bagatelle detesta e gli provoca disgusto, il Potere, la Ricchezza, il
Nazionalismo, la Religione, la Pseudo-Cultura; a ben leggere, il libro
che è ritenuto politico e che ha procurato la maggior ignominia a
Céline, è un'indagine interiore, spirituale, che scaturisce dalla sua
forte tempra morale, contro uno stato d'animo e un modo di intendere le
cose, incarnato nell'attualità dagli ebrei vincenti e in ascesa.
L'antisemitismo di Céline, che non ha nulla delle dottrine razziste, è
circoscritto al periodo della massima invadenza giudaica in ogni aspetto
della società, dalle finanze alla politica, alle arti; Céline teme
fortemente che le pressioni dei potenti consiglieri ebrei portino la
Francia alla guerra contro la Germania; i generali, dice in Bagatelle,
sono strumenti degli Ebrei, "Sono gli Ebrei che hanno tutto l'oro del
mondo. Senza oro niente guerra"; l'accusa è soprattutto rivolta al
bolscevismo ebraico, con i banchieri ebrei che sovvenzionano le
rivoluzioni e i dittatori russi; non a caso la calunnia di
collaborazionismo gli viene dai comunisti francesi, che hanno ben
imparato da Lenin i metodi da usare contro i nemici delle loro fedi.
L'alta lezione etica di Céline, che rimbalza le "abominations" degli
Ebrei su quelle dell'URSS e dell'America, è un richiamo ad altri valori
rispetto a quelli imperanti, la produzione e il consumismo, il
materialismo e il cattivo gusto. Céline sosterrà sempre di aver scritto i
pamphlets con scopi pacifici. Le prime testimonianze sui campi di
concentramento nazisti saranno divulgate dai giornali a fine aprile del
1945.
Gide osserva che l'Ebraismo è soltanto un pretesto per le invettive
di Céline, "il pretesto più facile e banale, quello che impedisce
qualunque sfumatura, che permette i giudizi più sommari, le più
colossali esagerazioni, il minor senso di equilibrio, la maggiore
intemperanza nello scrivere, e Céline raggiunge i migliori risultati
proprio quando è più scatenato...".
Dai nomi-simbolo si passa ai nomi, storpiati beffardamente in
Pantomima, dei letterati suoi peggior nemici a iniziare da Sartre, che
appellerà col nome spregiativo Tartre; Sartre-Tartre è uno
scrittore-simbolo costante nelle polemiche letterarie di Céline, come a
voler prendere le distanze da una delle due anime dell'esistenzialismo,
quella dei cattivi maestri rispetto a quella pura che attinge alle fonti
originali, che ha le proprie radici nel pensiero greco e kantiano e si
proietta in una metafisica ben lontana da certezze e valori
tradizionali. Laddove sulla linea di Hegel, alcuni intellettuali di
sinistra, come Sartre e Aragon, peraltro scrittori mediocri, cambiano le
carte in tavola di uno spiritualismo che è forza morale, e per mancanza
di coraggio preferiscono nascondersi nella letteratura engagée e nelle
velleitarie proposte dei cambiamenti sociali, fingendo sulle infamie del
comunismo, magnificando despoti che sono serviti da modelli ai
criminali nazisti e considerando anche i gulag necessari per le
magnifiche sorti progressive, Céline affronta come Perseo la Medusa,
senza l'ascendenza religiosa di Kierkegaard, contempla con lucido
razionalismo il male e la morte, combatte con la sua disperata
metafisica, da radicale non violento più che da anarchico (19), ogni
conformismo, si pone un continuo esame di coscienza che esterna con
surreali giochi d' artificio linguistici in cui la realtà è alterata,
grottesca, ridotta a bagliori, a barlumi visionari, a trasalimenti di
una memoria artefatta, a fantasmagorie musicali di una danza macabra.
Scrive Benn: "Che cos'è che scorgiamo al di là della terra? Se
riguardiamo ancora per un istante gli ultimi cento anni, il secolo che
si accompagna a Nietzsche, con i suoi laboratori e le sue carceri fra la
Siberia e il Marocco, scopriamo che, da Dostoevkij fino a Céline, lo
spirito si trova in uno stato di pura disperazione, le sue urla sono
ancora più terribili, straziate, crudeli di quanto mai lo siano state le
urla di uomini votati alla morte. Sono urla di natura morale, dettate
da un contenuto e sostanziali, immancabilmente urla "contro", in contesa
"con", in lotta "per", vogliono includere "tutto" e conservarsi oneste,
vogliono migliorare, portare a compimento, purificare, anzi far
assurgere al divino. Sono urla luterane in una bolgia faustiana. Vi
risuona ancora la pubertà dei miti, la biologia dei prometìdi" (20).
Alla fine della guerra, con l'accusa di antisemitismo e di
collaborazionismo, la realtà è quella allucinante dell'esilio,
attraverso la Germania, sotto i bombardamenti, per raggiungere la
Danimarca, dove nei sei mesi del lugubre carcere di Vestre Faengsel
rischia l'estradizione e la condanna a morte. Sono anni di angosce e
fatiche, di miseria, di spaventose incertezze, ha con sé una pistola per
difendersi e sempre pronto un flacone di cianuro....; è "dans un état
douloureux de victime incomprise" (21), rancoroso con tutti, dagli
editori lontani ai suoi protettori "loschi doppiogiochisti", assalito da
incubi, e i suoi unici momenti di requie sono quelli che riesce a
dedicare, in condizioni davvero eroiche e quando le energie glielo
consentono, alla medicina, con i pochi farmaci a disposizione, e alla
scrittura, col freddo che lo fa tremare mentre scrive. Le preoccupazioni
gli arrivano anche con le lettere quasi clandestine dalla Francia;
quando sa dell'entrata dei comunisti nel governo De Gaulle preannuncia:
"Dopo la nuova alleanza politica tirerà un vento di repressione feroce,
bolscevica, per i traditori, all'ultima goccia di sangue! Bisogna stare
all'erta. Ora anche gli innocenti dovranno avere paura" (22).
Preoccupazioni e anche disgusto, quando dalla Francia gli arriva qualche
nuovo libro, privo di originalità, come Tropico del Cancro di Miller,
"rimasticato, arcipontificante, il solito sbracamento dell'americano a
Montparnasse", e "nella prefazione si preoccupano di farci sapere che
non si tratta né di Céline né di Joyce"(23).
Con un linguaggio sempre più deformato e frantumato in una
sperimentazione formale continua, nella trilogia degli ultimi anni, Da
un castello all'altro, Nord e Rigodon, si intensificano le sue accuse a
politici e accademici, si definisce la sua riflessione, la visione
negativa della condizione umana, assurda, sofferente e disperata, di
decadenza, materialmente e moralmente in bilico sull'abisso, con la
morte e il nulla. Céline lancia il suo acuto sguardo in quel baratro
senza paura e con l'intransigenza e l'alto senso etico di dire comunque
la verità, anche se scomoda e sconfortante, sulle prospettive e
rappresentazioni che gli sembra intravedere al di là delle apparenze,
"la verità è un'agonia che non finisce mai".
Céline, che ha rischiato la vita in una difficile missione durante
la prima guerra mondiale e che poi è partito, ancora volontario, al
fronte nel 1939, conosce molto bene gli effetti spaventosi e le atrocità
delle guerre, ha visto i decapitati, gli scempi, ha curato i feriti e
gli amputati, ha per sempre impresso nella memoria immagini di sangue,
di strazio e agonia. In una lettera inviata ai famigliari, dopo
l'esperienza dei primi combattimenti sul Lys e di Ypres, scrive: "Da tre
giorni i morti sono rimpiazzati continuamente dai vivi al punto che si
formano dei monticelli che vengono bruciati e in certi posti si può
attraversare la Mosa a guado sui corpi tedeschi". Come osserva Lanuzza
la guerra è per Céline "la perfetta, orrida caricatura della follia e
della morte", con personaggi "caricature d'un "umano troppo umano" ossia
d'una umanità giunta al proprio estremo degrado" (24).
Immagini di morte per Céline che ha pietà per i singoli individui,
sempre, per i bambini mongoloidi dei quali si prenderà cura durante la
fuga attraverso la Germania, per i malati e i moribondi, per i
condannati a morte, dei quali cercherà di lenire le sofferenze nel
castello di Sigmaringen, per l'intera umanità condannata dal fatto
stesso di esistere, dannata dai suoi stessi vizi e traviamenti,
malvagia, affetta da tutti i peccati capitali, una corte dei miracoli
con le sue infinite miserie fisiche e morali.
Céline percepisce ogni aspetto del male di vivere, la sua dimensione
metafisica, e quella corporale, carnale, è pervaso dal senso della
morte, e da uomo superiore come umanista e come scrittore non può che
assumersi un doppio compito, quello dell'artista che trasforma tutto ciò
in letteratura, ne fa motivo delle proprie opere, e quello morale di
denunciare i mali spirituali.
Si ha così in Céline l'immagine reale e al tempo stesso allegorica
dei campi di battaglia, con la guerra specchio degli orrori del mondo
moderno, della condizione umana, un'immagine di ascendenza romantica,
presente in Hölderlin quando paragona i tre stati che si vanno formando
nella Germania industrializzata "ad un campo di battaglia dove giacciono
alla rinfusa corpi tagliati a pezzi, membra staccate, mentre il sangue
della vita si perde colando nella sabbia" (25), e in Nietzsche quando
Zarathustra si ripromette di risanare "gli uomini spezzettati e sparsi
come in un campo di battaglia o in un macello".
Mentre il medico Céline tenta di alleviare i mali fisici,
inevitabili, dei suoi pazienti, lo scrittore nelle sue storie addita i
degradi morali, mali ancor più gravi che competono la coscienza; assume
un tono amaro e sgradevole perché sa che le malattie gravi hanno bisogno
di cure energiche, crea con un linguaggio emotivo quelle emozioni che,
essendo l'essenza della vita e l'opposto della morte, dovrebbero far
meditare, rendere migliori i lettori. Nel soliloquio dei Colloqui si
immagina i risultati: "...se la massa fosse emotiva!... finiti i
macellamenti!", ma subito subentra lo scetticismo, la consapevolezza
dell'illusione, la mancanza di speranza, la sfiducia nel cambiamento,
nel miglioramento, degli uomini: "... sì, campa cavallo!...", e con
l'assillo addirittura di essere considerato da tutti "un nemico del
genere umano" come aveva sentenziato Radio Londra; ossia il contrario di
ciò che in effetti è, un umanista, un benefattore di tipo evangelico
che, in un periodo buio, privo di valori, teme che la ragione senza i
sentimenti possa condurre a catastrofi ancora più gravi di quelle già
causate, e non può fare a meno di auspicare una rinascita e di
prodigarsi perché questa avvenga.
Il suo fiero e spietato individualismo, con l'orgoglio di una
nobiltà interiore e il disprezzo di tutto e di tutti, in parte di
derivazione decadente, alla Des Esseintes di Huysmans, è un prendere le
distanze da ciò che è basso e volgare, dalla massa che considera
"sadica, codarda, invidiosa e distruttrice", dall'uomo che "non vale un
soldo bucato"(26), e al tempo stesso è un ulteriore richiamo alla
necessità di introspezione e di una vita "controcorrente", da uomo
migliore, da superuomo.
Nauseato da ciò che si è incancrenito nell'umano, come Nietzsche che
fa dire a Zarathustra: "Il grande disgusto per l'uomo - ciò mi soffoca"
("Il convalescente"), Céline vede gli umani "pesanti", di una
"pesantezza materialista" come la chiama in La scuola dei cadaveri,
uomini che hanno bisogno di leggerezza per migliorare se stessi. Non
vede uomini superiori, capaci di esserlo, presagisce per il futuro
soltanto un Fato di morte; ma nonostante ciò il suo assumersi
responsabilità in quanto umano e un interesse a certi aspetti della vita
lo portano a dialogare con gli uomini di domani che vorrebbe diversi, a
proporre certi antichi nobili valori che gli derivano dalla sua cultura
classica, dalla visione che ha del mondo ellenico.
In una lettera a Milton Hindus si definisce "Io povero barbaro
farfugliante"; così rivendica la sua appartenenza alla cultura
greco-latina, un "barbaro" che non nato elleno si è dovuto conquistare
questo titolo andando alla ricerca dei valori del classicismo più
autentico, per poi riproporli in un umanesimo teso ad una risurrezione
spirituale; "farfugliante" perché in un'età di decadenza e illusioni, di
confusione tra etica ed estetica, intrisa da dialettica e logica, senza
la presenza di confortanti dei, con la totalità e l'unità spezzate
irrimediabilmente, può dunque soltanto "farfugliare", balbettare frasi
sconnesse, interrotte, disgregate, monologare senza costrutto su
conoscenze relative, su emozioni e intuizioni appena affiorate da un
flusso intermittente di coscienza. Ora purtroppo il mito classico può
essere soltanto parodiato, come per esempio nel "Balletto mitologico"
del 1945-'47 Fulmini e saette, e ne consegue la parodia da parte di
Céline di coloro che, non avendo compreso i profondi significati e
valori, si travestono con gli aspetti esteriori dell'età classica,
cattivi e falsi cultori della classicità.
Mentre il superuomo di Nietzsche nel suo deserto, e nella sua
utopia, "afferma e benedice" perché vede nuove possibili conquiste,
transvalutazioni di valori, Céline nei mercati dei malaffari afferma e
maledice perché è consapevole che l'uomo non ascolterà alcun
insegnamento; non più luci sulla pagina di Céline ma ombre che si
decompongono, si perdono nel buio della notte, nell'eternità della
morte.
Dopo il beneficio dell'amnistia, ma con la condanna per indegnità
nazionale, al pagamento di un'ammenda e alla confisca di metà dei beni,
da parte del Tribunale di Parigi che lo costringe a vivere, secondo una
contraddizione in termini, con la misera pensione di ex-combattente, nel
1951 ritorna in Francia, in un quartiere suburbano che ricorda quelli
dove ha trascorso la giovinezza, un ritorno al passato, senza però
presenze umane, un esilio volontario; continuano ad arrivargli come
inutili schiamazzi gli appelli sulla stampa di tutti gli scrittori di
sinistra, nessuno escluso e capeggiati dal solito Tartre, che chiedono
sia ignorato e dimenticato da qualsiasi centro culturale francese e da
qualsiasi salotto letterario, del resto consorterie da Céline sempre
evitate con la massima avversione alla loro futilità. Céline e le sue
opere continuano dunque ad essere considerate maledette, fastidiose, da
condannare ad una morte simbolica, come lui ben sa quando scrive a
Gallimard: "L'essentiel semble être que moi et mes livres soient bien
étouffée, annulés, oubliés, inexistants", e nella sua prima intervista a
Robert Sadoul, per Radio Suisse Romande: "Il est évident que je suis
destiné à être craché, vilipendé, sali, mortifié, fusillé si possible,
jusq'à la fin de mes jours. Socrate le prévoyait déjà".
A Meudon, suo estremo esilio, è sulla difensiva, diffidente, più che
mai con una corazza davanti, accentua la sua ambiguità, le sue
apparenti contraddizioni. Ai giornalisti e ai critici che non stima dice
il contrario di ciò che pensa. Agli intervistatori appare irreale, dà
immagini fuorvianti di sé, evita di parlare dei contenuti dei suoi libri
anche se ora, dopo che non gli era mai stata data possibilità di
replica e di protesta, afferma la dignità del proprio isolamento senza
partiti e ideologie, lontano da accademie di cui nega l'importanza;
ribadisce il disprezzo per i compromessi e il benessere: "Avrei potuto
fare come tanti altri! Da una parte o dall'altra.... Me lo diceva
Marion: "Se avessi preso la fila di sinistra, adesso avresti un piano
intero all'Excelsior"; richiama, soprattutto i letterati, alla modestia,
quella che per lui ha avuto origine dagli anni del Passage Choiseul, e
all'impegno nel lavoro.
Non può fare a meno di proclamare la sua diversità dagli altri
autori, dal "giro" dei padroni ipocriti e falsi della letteratura, da
quelli che lo odiano per il suo "ingresso così improvviso e così
sfolgorante" nella letteratura francese e che vorrebbero vendicarsi di
lui e da quelli che lo imitano senza capirlo; ribadisce con forza la
fiducia nelle sue invenzioni linguistiche, nell'argot, nella tecnica e
nello stile della sua scrittura, con l'intento di proseguire la sua
pericolosa impresa, quasi un debito morale verso se stesso e verso gli
altri che vorrebbe diversi, migliori: "Voglio continuare a fare il
vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri" (27).
E' un'affermazione che rientra nel concetto romantico dell'artista
come trapezista, un funambolo che indossa la maschera del "vecchio
clown", con il trucco, eternamente tragico, della fantasia e
dell'immaginazione, con le magie della scrittura, per sollevarsi, libero
e leggero, da una realtà inadeguata, per la necessità irrinunciabile di
una trasformazione, di una ascesa che nega e al tempo stesso tende a
ricostruire, di un superamento; sdegnoso si lascia alle spalle le false
certezze dell'attualità, tutte le sovrastrutture, religiose, politiche,
culturali e civili, sprezzante dei pericoli si affida ad una corda
sospesa sfidando il vuoto, l'abisso della propria interiorità con le
difficoltà delle scelte morali, e raggiunge la condizione di oltre-uomo,
in un "lassù" da dove le visioni hanno le massime ampiezze, da dove
distanza e distacco consentono un tipo di riflessione e di pensiero
particolari, immettono nella scrittura motivi metafisici e quella pietas
per indicare all'uomo, rimasto a terra ancora verme e scimmia, come
superare la sua natura animale.
Céline ha a portata di mano i versi di Baudelaire, con il Poeta
funambolo, albatro "...principe / Dei nembi, che frequenta la tempesta /
E ride dell'arciere; a lui, esiliato / Sulla terra, fra gli schiamazzi,
le ali / Da gigante impediscono il cammino" ("L'albatro"), con "lo
spirito" che si muove "agilmente" al di sopra del reale, oltre il sole e
le sfere stellate, nuota libero e beato nell'immensità profonda, ben
lontano dai "morbosi miasmi", purificato "nell'aria superiore", dove i
pensieri sono "come allodole" pronte ad un libero slancio verso i cieli e
a tornare sulla terra per comprendere " ... il linguaggio / Dei fiori e
delle cose silenziose!" ("Elevazione"); Céline legge i versi del "clown
agile" di Verlaine che, estraniato, sorride con altezzoso disprezzo
mentre ha intorno "...la gente sciocca e laida, / La canaglia putrida e
santa dei Giambi, / Acclama il sinistro istrione che la odia" ("Il
clown"). Questa temperie culturale ha la sua matrice in Nietzsche, che
nel clown e in tipi simili indica la preistoria dell'artista e del
genio, mentre Zarathustra sottolinea la pericolosità per chi si azzarda a
compiere un tale superamento, nel dialogo con l'acrobata morente: "Tu
hai fatto del pericolo il tuo mestiere" (28).
Il faro nicciano si
irradia sui grandi scrittori attraverso le letterature e le arti di
tutte le nazionalità: l'acrobata "lieve e tranquillo" di Chodasevič
condivide lo stesso destino del Poeta, sotto, in basso, "la folla
mendace", la bruta e pesante materia, sopra, in alto, il Poeta libero e
solitario, nella sua pericolosa ricerca metafisica, l'acrobata di Kafka
può vivere ormai soltanto sul trapezio, e con il passare del tempo gli
necessita addirittura un secondo trapezio chiesto con insistenza
all'impresario (nel racconto "Primo dolore"), parabola della
letteratura, simbologia dell'esibizione e del rischio in questo preciso
contesto letterario da cui non si può più uscire, "Il funambolo" di Klee
mostra l'artista sospeso sul mondo fenomenico in un'eterna tensione
spirituale verso il metafisico, funamboli volanti si librano
nell'"imagination aérienne" di Chagall, come la definisce Ripellino
usando un termine di Bachelard (29).
Per la letteratura italiana basti
ricordare Arrigo Boito del romanzo Il trapezio, il cui protagonista Yao
nelle sue esibizioni è colto da vertigini non provocate da abissi
materiali bensì da abissi più profondi, astratti, e Alberto Savinio,
profondo e costante lettore di Nietzsche, con il suo
giocoliere-equilibrista che, in opposizione alla pesantezza del corpo e
agli ottusi valori terrestri degli "uomini-bui" "che vivono unicamente
con i muscoli e con la pancia", sale sul trapezio seppur cosciente della
fragilità della propria perfezione tecnica, ancora metafora della
letteratura, per ascendere verso le altitudini fra gli uomini-luce
rischiando l'eventualità del dramma quando "si staccherà dal firmamento
(...) e piomberà nella segatura della pista, come una stella estiva"
(30).
Il sogno utopico di Céline è la ballerina che, con la sua musica e
con la sua grazia, non cade nella polvere, sfida la materia e la realtà,
tiene fuori dal giro di danza la morte: "Tout cela est danse et
musique, toujours au bout de la mort, ne pas tomber dedans" (31); a
Céline è soltanto consentito ammirare la danzatrice per poi ritornare
alle proprie responsabilità che sono appunto quelle di continuare a
rischiare sul filo teso e instabile della scrittura, della letteratura.
Céline è ben consapevole dei mezzi per fare il funambolo, conosce
bene la folla che vive senza coraggio giù al mercato. Ad Alberto
Arbasino che nel 1956 va a Meudon a intervistarlo, il "Furibondo" dice
che gli accademici e i gesuiti non hanno inteso i valori e il mistero
delle letteratura classica, inafferrabili con strumenti razionalizzati,
compresi soltanto dai mistici e dai romantici tedeschi: prima della
parola e della dialettica ci sono l'unità, i sentimenti e le emozioni.
Il problema dello scrittore è la consistenza del trapezio, lo stile;
"Ormai - dice Céline ad Arbasino - i contatti umani sono così invadenti
che l'insegnamento e l'informazione non hanno più niente in comune con
la letteratura (e viceversa). E poi c'è troppa gente che gira in
automobile, che vuole arrivare in fretta. Vivono tra il comunismo e le
vendite a rate: sempre più conformi, fedeli, borghesi" (32).
A William Burroughs che, in visita nel 1958, gli chiede un parere su
Beckett, Genet, Michaux, Simone de Beauvoir, Sartre e altri, lui che
"pensava di essere il più grande scrittore francese" risponde: "Ogni
anno c'è un nuovo pesce nello stagno letterario. Non è nessuno. Non è
nessuno. Non è nessuno" (33). Céline nella trentina di interviste a
Meudon insiste su quelli che ritiene i valori della letteratura,
condanna senza appello scrittori e critici che continuano a costruire
"Torri del Bla bla", che per tornaconto o per incomprensione
neutralizzano i veri padri della letteratura francese come quando usano
in modo diffamatorio l'aggettivo rabelaisiano. Con Guy Bechtel, che lo
va a trovare il 27 novembre del 1958, Céline parla di Rabelais, come lui
scrittore e medico, "ça se voit: la crudité juste", rileva la sua
inventiva linguistica e la grande perizia di anatomista che già operava e
creava apparecchi chirurgici; entrambi si sono messi in situazioni
disperate, rendendosi "soigneusement", accuratamente, odiosi così da non
poter aspettare dal mondo intero altro che sputi; ma il rischio di
voler esporre le proprie verità è più pericoloso: "Ce qu'il y a de bien
chez Rabelais, c'est qu'il mettait sa peau sur la table, il risquait. La
mort le guettait, et ça inspire, la mort! C'est même la seule chose qui
inspire. Je le sais, quand elle est là, juste derrière. Quand la mort
est en colère".
A Meudon il suo stato di salute è sempre più instabile per i mali
causati dalle ferite delle guerre e dalle privazioni dell'esilio, dalle
fatiche e dalle angosce, passa le notti insonni, scrive senza tregua;
Lucette, che lo assiste, ci dice: "Il ne lui restait plus beaucoup de
temps à vivre. Une seule chose demeurait importante pour lui: finir
Rigodon" (34); è circondato da gatti, cani e uccelli, un bestiario su
cui ricadono i segni del dolore e della fine, della morte: il pappagallo
Totò a chi chiede di Céline risponde: "Monsieur Céline est absent!" e
aggiunge: "La littérature est meurt!", la cagna Bessy agonizza "distesa
in direzione del ricordo, da dove era venuta, dal Nord, dalla Danimarca"
(Da un castello all'altro), il gatto rosso osserverà immobile, per
tutta la durata, i funerali di Céline.
L'opera di Céline è di difficile lettura anche perché l'autore ha
volutamente intorbidato le acque della sua scrittura alla superficie,
l'ha resa sporca così che soltanto attraverso vortici di artifici
letterari e di molteplici significati si giunge ad una profondità chiara
e limpida, olimpica, di una dimensione winckelmanniana, si può trovare
infine un imo impregnato di forte moralità.
Mentre dunque è necessario affrontare questa complessa lettura con
una doppia attenzione alla superficie e alla profondità, e soprattutto
senza pregiudizi, la quasi totalità dei lettori e dei critici di Céline
si è avvicinata alle sue opere condizionata da un primo fuorviante
giudizio sull'uomo, e così è stato facile entrare, come in una trappola,
nella sezione delle ideologie, con la conseguenza che fin dalla
pubblicazione dei suoi primi libri lo ha osannato o deprecato usando
soltanto quel metro di giudizio; la destra ha tentato giustificazioni
politiche e la sinistra si è sentita in dovere di prenderne le distanze,
entrambe con provocazioni volute, esagerate, con tentativi di
escamotage che si infrangono ogni volta. Miopia, ingiustizia di fondo e
"malissima" fede hanno così caratterizzato la maggior parte delle
letture che sono state fatte delle opere di Céline.
Nessuno comunque è in grado di negare la grandezza assoluta di
questo scrittore originale e geniale, grandissimo in tutti i sensi, per i
contenuti, il trionfo della notte e della morte, in cui ha espresso le
sue visioni, e per la forma, il jazz della prosa, in cui ha fuso le sue
idiosincrasie.
Dispiace che ancora qualche decennio fa, quando per altro si avviava
finalmente un processo di riconsiderazione della vita e dell'opera di
Céline, anche letterati avveduti abbiano persistito con questi
malintesi, continuando ad infilarsi nella trappola delle ideologie, in
nasse senza uscite, dalla Francia all'Italia: Frédéric Vitoux,
considerato, anche per le confidenze avute dalla vedova di Céline,
Lucette, uno dei più importanti biografi, lo ritiene condannabile per il
suo razzismo "per molti versi ancora incomprensibile", un altro
biografo, Philippe Murray scrive: "L'autore dei pamphlets è all'interno
dell'altro, come una malattia del corpo all'interno dello spirito". In
effetti le sue scottanti verità bruciano ancora per chi crede nel
determinismo, nel continuum storico e nel radioso avvenire. Moravia,
dopo aver detto che non ci si può esprimere sul "brutto e tedioso"
pamphlet Bagatelle, "sarebbe come spiegare e discutere l'epiteto di
"Satana" appioppato da Komeini agli Stati Uniti", si chiedeva "Perchè
questo odio del progresso da parte di Céline?" (35). Claudio Magris in
Danubio parla del Céline reazionario, di Bagatelle come del suo libro
"più mostruoso", di "scelte aberranti", e per questo simile ad Hamsun,
dei quali comunque non può disconoscere gli alti valori letterari (36).
Walter Mauro, noto rappresentante della critica di sinistra, addirittura
sconsiglia la lettura di Pantomima per un'altra volta (37). L'editore
Guanda, nel pubblicare Bagatelle per un massacro, si sente in dovere di
sostenere "il suo più totale dissenso dalle tesi "antisemitiche" del
libro, che nel gennaio del 1982 a Milano è ritirato dal mercato per
ordine del Tribunale con ordinanza provvisoria perché pubblicato senza
l'autorizzazione di Lucette, contraria alla riedizione dei pamphlets. Fa
sdegno quando George Steiner, marxista in gioventù poi definitosi "un
uomo in cammino", si chiede in riferimento a Céline e Heidegger: "Io non
capisco com'è possibile la sera ascoltare la meravigliosa musica di
Schubert, e poi la mattina torturare altri esseri umani" (38), e indigna
l'articolo di Cesare Cases dal titolo "Puah, questi maestrini del
pensiero!", rivolto ai "Nouveaux Philosophes", in cui accusa Céline di
"delirante antisemitismo" e di "feroce invidia del declassato che gli fa
credere nella congiura e nei Savi di Sion. In questo nessuna differenza
tra lui e un Pino Rauti o un Franco Freda qualsiasi" (39). Fa i conti
della serva anche Pietro Citati: “Si dice: Benn ha avuto simpatie per il
nazismo. Ma anche Céline, che gode di una fama immensa, è stato
nazista, scrivendo volgarità e turpitudini, che Benn, artista più grande
di lui, non avrebbe mai osato non solo firmare ma nemmeno immaginare”
(40).
E poi le donne, con la pretesa e l'illusione di essere letterate,
ancorché autorevoli, da Simone de Beauvoir, "Morte a credito conteneva
quel bilioso disprezzo per il popolino che è una tipica tendenza
prefascista", a Natalia Ginzburg, che sentenzia su Bagatelle: "Il libro è
letteralmente brutto e dico che non poteva essere altrimenti. Un libro
razzista non può essere altro che brutto" (41), a Bianca Maria Frabotta:
"Il famosissimo protagonista del Voyage è il coglione che scrive
Bagatelle" (42).
E' stato comunque difficile non farsi fuorviare dalle apparenti
concezioni ideologiche di Céline, considerarle parte della complessità
di Céline, vederle confluire nella mescolanza di elementi artefatti e
simbolici della sua scrittura. Perfino Gianfranco Contini in un primo
momento, nel saggio del 1946 su Giovanni Faldella, annoverando Céline
fra i nuovi esponenti delle "esagitazioni" linguistiche, si lascia
sfuggire un "pur detestabile" (43), e Pasolini, frastornato dagli
impegni romani, in discesa libera come poeta e critico letterario
rispetto ai picchi del periodo friulano, scrive nel 1973 alla
pubblicazione de Il castello dei rifugiati: " è un brutto libro perché è
odioso ciò che Céline pensa ed è. (...) Non è possibile perdonare a
Céline il suo fascismo in nome del buon senso borghese, e non è
possibile dissociare da questo il suo stile, se il suo stile altro non è
appunto che la "mimesi" del buon senso di un borghese, sia pure
disperato e scardinato dalla vita normale" (44). Un giudizio davvero
incredibile se si pensa che gli obbiettivi principali delle polemiche di
Pasolini quando scrive questa recensione erano già tutti concentrati
nelle parole di Céline intervistato da Arbasino: l'insegnamento e
l'informazione, il consumismo, la borghesia e un comunismo opportunista,
il conformismo; Pasolini non si avvede che il pregiudizio e la rabbia
di persone meschine, dai borghesi ai politici e agli pseudo
intellettuali, che hanno provocato le persecuzioni di Céline, sono i
medesimi elementi mentali di coloro che contro la diversità morale dello
stesso Pasolini e la singolarità delle sue opere reagivano con il
linciaggio, la censura e i processi.
In un articolo dal titolo, invitante alla lettura, "Céline come
Pasolini", il critico Angelo Guglielmi, dopo essersi sentito in dovere
di ribadire il luogo comune dell'antisemitismo, del nazismo e del
collaborazionismo di Céline, pur recensendo un libro come Guignol's Band
dalle continue invenzioni linguistiche, dalle immagini surrealiste e
privo di riferimenti politici, scrive: "Qualcosa del genere sarebbe
accaduto qualche decennio dopo qui da noi con Pasolini il quale
regolarmente assumeva comportamenti contrari a quelli attesi,
schierandosi con i poliziotti contro gli studenti, con la Chiesa contro
l'aborto, con la nostalgia per il passato contro l'avventura del futuro.
Il meccanismo è pressoché lo stesso". Il critico forse non avverte
nelle sue stesse parole conclusive che "quel rimescolare in quanto di
più bieco il tempo offre" ha valenze tutt'altro che negative per Céline e
Pasolini: "Si trattava comunque, nell'un caso e nell'altro, di aprire
il quadro della propria vita a elementi di disparità, di introdurvi
appositi squilibri, di usare la provocazione dello straordinario non
solo per attingere pensieri e emozioni altrimenti ignoti ma anche, e
soprattutto, per riconoscersi in un più alto livello di consapevolezza e
di sofferenza morale" (45).
Bernard-Henry Lévy ha ragione nell'osservare che l'innocente
spudoratezza di Céline "ha qualcosa del guastafeste, dell'indesiderabile
testimone e, dunque, dell'uomo da eliminare" (46).
La decisione del Ministro della Cultura francese di mandare al
macero il volume delle celebrazioni del 2011 perché vi è inserito il
nome di Céline, è un'ennesima degradazione nazionale, ingiusta e
ridicola, come commenta Guido Ceronetti per il quale mettere Céline
nell'elenco delle personalità da onorare, cioè nel posto che gli
compete, poteva essere "un'occasione per comprendere, riscoprire,
analizzare" lo scrittore francese, "un angelo pieno di cicatrici, che
sfoga una pena scespiriana" (47).
Si torna al 1942, quando il Ministero
dell'Informazione francese aveva commissionato un'opera sui letterati
famosi dell'epoca, e uno dei curatori, Samuel Monod aveva escluso il
nome di Céline per indegnità nazionale.
Céline scrive all'editore Paulhan, prevenendo le reazioni della
pubblicazione di Casse pipe: "Gli oltraggi, le minacce, gli insulti non
sono per me altro che l'abbaiare dei cani.... Cani d'inferno è vero ma
io sono impastato di inferno" (48).
Come sempre il passare del tempo è un toccasana per la letteratura
perché conserva e fa emergere ciò che ha effettivo valore e condanna
senza remissione il superfluo, ciò che non ha consistenza letteraria.
Così alle olimpiche altitudini dove Céline si trova con pochi altri, tra
i quali Kant, Nietzsche, Camus, Benn, Hamsun e Bernhard, cominciano a
guardare anche gli scettici di un tempo, ad esempio i "Nouveaux
Philosophes" che, come osserva Lanuzza, dopo le iniziali posizioni
maoiste e marxiste, capiscono la necessità di dover tentare nuove e
autentiche forme di pensiero e di riflessione; il lessico céliniano
interessa anche questi intellettuali di sinistra che "contestano la fede
nella storia verbalizzata dagli interessi del potere, criticano il mito
del progresso, la scienza manipolatrice e la tecnica che condiziona il
comportamento e i consumi delle masse"(49).
NOTE
1) Gottfried Benn, Lo smalto sul nulla, Milano 1992, p. 150.
2) Louis-Ferdinand Céline, Lettere a Elizabeth, Milano 1993, p. 59.
3) L.-F. Céline, Lettere a Marie Canavaggia. Lettere scelte 1939-1960, Milano 2010, pp. 19 e 149.
4) Judith Karafiath, "Magazine littéraire", gennaio 1994, p. 29.
5) Guido Ceronetti, "Semmelweis, Céline, la morte", in L.-F. Céline, Il dottor Semmelweis, Milano 1975, p. 124.
6) Stefano Lanuzza, Maledetto Céline. Un manuale del caos, Roma 2010, p. 107.
7) Véronique Robert avec Lucette Destouches, Céline secret, Paris 2001, p. 93.
8) S. Lanuzza, op. cit., p. 111-114, 117.
9) Giuseppe Dierna, "La Repubblica", 14 gennaio 2003.
10) Intervista del 7 novembre 1932 a cura di Pierre-Jean Launay, in
Céline e l'attualità letteraria [1932-1957], a cura di Giancarlo
Pontiggia, Milano 1993, p. 13.
11) Marina Alberghini, Louis-Ferdinand Céline gatto randagio, Milano 2009, p. 17.
12) Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare medioevale e rinascimentale, Torino 1979.
13) Tutte le citazioni in francese da Céline sono nei due numeri di
"Magazine littéraire", n. 292, octobre 1991, e n. 4 Hors-série, 4
trimestre 2002, dedicati a Céline; a lui è dedicato anche il numero 317
di "Magazine littéraire", janvier 1994.
14) L.-F. Céline, Lettere a Marie Canavaggia, op. cit., p. 22.
15) L.-F. Céline, Lettere a Marie Canavaggia, op. cit., p. 82.
16) Eraclito, Frammento A 62, in La sapienza greca, a cura di Giorgio Colli, Milano 1993, vol. III, p. 68.
17) L.-F. Céline, Interviste con Louis-Ferdinand Céline, Roma 1996, p. 28.
18) S. Lanuzza, op. cit., p. 126.
19) Dopo aver letto il Voyage Sartre e Simone de Beauvoir cadono
nell'equivoco di credere l'anarchismo che vedono nel romanzo simile al
loro.
20) G. Benn, Romanzo del fenotipo, Milano 1998, pp. 33 e 34.
21) Véronique Robert avec Lucette Destouches, Céline secret, op. cit., p. 101.
22) L.-F. Céline, Lettere a Marie Canavaggia, op. cit., pp. 63 e 64.
23) L.-F. Céline, Lettere a Marie Canavaggia, op. cit., p. 68.
24) S. Lanuzza, op. cit., p. 187.
25) Friedrich Hölderlin Iperione, Torino 1947, pp. 193 e 194.
26) L.-F. Céline, Lettere a Marie Canavaggia, op. cit., pp. 22 e 44.
27) Da "Intervista" a cura di André Brissaud, in Céline e l'attualità, op. cit., p. 124.
28) "Del problema del commediante", in Friedrich Nietzsche, La gaia
scienza, Milano 1971, p. 224 e 225, e "Prefazione di Zarathustra", in
Così parlò Zarathustra, Milano 1976, p. 14.
29) Angelo Maria Ripellino, I sogni dell'orologiaio, Firenze 2003, p. 120.
30) Alberto Savinio, Sorte dell'Europa, Milano 1977, p. 32 e Hermaphrodito, Torino 1974, p. 234.
31) ) Louis-Ferdinand Céline, Lettere a Elizabeth, op. cit., p. 67.
32) L'intervista "Céline il misantropo" è su "Il Mondo", 10 settembre 1957.
33) Victor Bockris, Con Burroughs (conversazioni inedite), Milano 1979, p. 125.
34) Véronique Robert avec Lucette Destouches, Céline secret, op. cit., p. 138.
35) Alberto Moravia, "Il Corriere della Sera", 11 ottobre 1981, poi in Diario europeo.
36) Claudio Magris, Danubio, Milano 1986, pp. 51 e 53.
37) Walter Mauro, "Il Tempo", 30 maggio 1987.
38) George Steiner, "Panorama", 10 novembre 2005.
39) Cesare Cases, "L'Espresso", 15 novembre 1981.
40) Pietro Citati, “I saggi di Benn”, in La malattia dell’infinito, Milano 2008, pp. 299 e 300.
41) Natalia Ginzburg, "Corriere della Sera", 7 gennaio 1982.
42) Bianca Maria Frabotta, in Céline in Italia. Traduzioni e
interpretazioni, a cura di Maurizio Makovec, Roma 2005, pp. 78 e 79.
43) Gianfranco Contini, "Pretesto novecentesco sull'ottocentista
Giovanni Faldella", ora in Varianti e altra linguistica, Torino 1979, p.
581.
44) Pier Paolo Pasolini, "Tempo", 22 luglio 1973, poi in Descrizioni di descrizioni, Torino 1979.
45) Angelo Guglielmi, "Paese Sera", 15 ottobre 1982.
46) Bernard-Henry Lévy, "L'Espresso", 15 novembre 1981, traduzione dell'articolo apparso su "Le Nouvel Observateur".
47) Guido Ceronetti, "Ma io, filosemita, celebro Céline", "Corriere della Sera", 26 gennaio 2011.
48) Lettera a Jean Paulhan del febbraio 1948.
49) S. Lanuzza, op. cit., p. 39.
Francesco Piga
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Ringraziamo Francesco Piga per averci inviato questo suo testo, apparso su "Nuova Antologia".